Il Teatro Nazionale di Genova ha dato il via alla Stagione con uno spettacolo fuori dal centro città, alla Sala Mercato del Teatro Modena a Samperdarena. Uno spettacolo nato da un progetto performativo e interculturale, che dal febbraio scorso ad oggi si è articolato in diverse tappe per poi culminare appunto in una piece teatrale scritta a quattro mani da Laetitia Ajanohun, drammaturga francese di origine africana, e la “nostrana” Laura Sicignano. Donne che corrono, questo il titolo, costruisce una narrazione corale scaturita dal vissuto delle partecipanti, dalle loro esperienze, che sono le più varie in quanto ognuna di loro proviene da backgound culturali diversi e complessi.
Le quattro protagoniste a causa di un blackout restano prigioniere nel magazzino sotterraneo di una multinazionale chiamata La giungla, dove lavorano come delle schiave. Sono quattro donne molto diverse tra loro per età, cultura e provenienza, ma quello che le lega è questo lavoro per nulla gratificante e che anzi le tiene oppresse per orari pesanti e fatica.
Un lavoro che le fa correre qua e là senza sosta in uno spazio che sembra essere anche claustrofobico. Il buio in cui vengono immerse per il blackout se subito le mette in uno stato di panico, poi le porta a rassegnarsi e ognuna di loro pian piano si apre raccontando di sè. Ognuna di loro ha la sua storia e tutte queste esperienze non sono certo tinte di rosa. C’è chi ha avuta una figlia appena adolescente che tira su da sola, chi è stata in carcere per ben cinque anni per aver derubato clienti in banca, chi è venuta via dal suo lontano paese per fame, ma lo rimpiange, e chi non riuscendo a parlare si esprime solamente con la danza.
La piece con la regia di Laura Siciniano dura un’ora, ma è un’ora senza ritmo. Il testo non avvince perché non racconta niente di nuovo: le tematiche sono sempre le stesse viste e straviste, trite e ritrite, in cui viene buttato dentro il sociale, la politica e il dramma personale, e la regia non è nè dinamica nè brillante. Malgrado il lavoro che dovrebbe essere stato fatto nei mesi di laboratorio la piece non restituisce il lavoro vero che deve fare il teatro: quello sul personaggio. Le quattro protagoniste sono abbozzate, e la poca esperienza delle attrici (a parte Fiammetta Bellone) non aiuta rimandando solo personaggi stereotipati: la ragazza madre, l’autistica, la donna scafata. E’ tutto un giocare in scena. E anche quando alla fine torna la luce e le lavoratrici decidono comunque di restare all’interno del magazzino per protesta, lo fanno come fosse un gioco. Si mettono abiti con lustrini e aprendo scatoloni pieni di fiori continuano a correre e a danzare senza che questo abbia un senso preciso. Almeno questo è quanto trasmettono al pubblico : un no sense.
Dulcis in fundo, al momento degli applausi, le attrici hanno tirato fuori la bandiera della Palestina, e un cartello con scritto STOP GENOCIDIO. Ed ecco attuarsi così quello che è denominato artivismo. Gli artivisti, in questo caso le artiviste, accomunate dalla necessità di enunciare le ragioni dell’impegno e della partecipazione, hanno preso posizione sul palco. In polemica con la dilagante superficialità connaturata all’estetica del postmodernismo e in contrasto col concettualismo e la sua idea di arte come sistema esatto e autonomo, fermo e immune dal “fuori”, hanno sentito impellente l’esigenza di far sentire la loro voce, il loro pensiero, il loro grido contro le ingiustizie del mondo.
Lo spettacolo, in scena fino a domenica 5 ottobre, è prodotto dal Teatro Nazionale di Genova, svolto in collaborazione con Bogliasco Foundation. Francesca Camponero
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