Accantoniamo l’idea di inneggiare, di formulare lodi al buon umore, viste le penose e pensose circostanze che contraddistinguono il tempo presente a livello locale e globale.
Il buon umore resta un’ utopia, un’ astrazione, salvo quando proviene da una inesorabile genetica che, come tale, prevale anche su circostanze e su educazioni avverse.
A parte tutto, non v’è dubbio che il buon umore individuale sia un pregio oggettivo di cui possa beneficiare anche la Società e che “il peggior difetto è il malumore”, rafforzando il concetto con Madre Teresa di Calcutta.
Va anche rilevato che se il sistema fosse davvero improntato al benessere civico, nessuno potrebbe orgogliosamente smarcarsi da tale benemerito traguardo.
In tal senso, non è pensabile connotare il buon umore come parametro di qualità personale, come simbolo di successo, vuoi per il clima sociale contaminato dal seme della discordia e dalla paura, vuoi per la canonica applicazione di parametri di riconoscimento economici, per loro natura antitetici all’armonia civica e sociale.
Per ben che vada, un solo cenno di euforia fuori contesto suscita l’immediata reprimenda de “il riso abbonda sulla bocca degli stolti” o la reputazione de “il divertimento gli costerà caro, lo prenderanno per somaro”, citando Aldo Palazzeschi.
Sia come sia, resta il dato statistico che colloca una varietà di ingenite afflizioni in capo alla categoria dell’opulenza, di norma intollerante ad ogni espressione di buon umore che non sia esito di un profitto.
Tragico equivoco, dunque, considerare il benessere umorale una conseguenza del benessere socio-economico, vistane la latitanza proprio nella categoria teoricamente detentrice.
In sua vece si può osservare l’ umore molesto e sepolcrale del pensiero capitalistico, quello stesso pensiero che, sulla carta, vuole essere portatore di comune benessere.
Un benessere d’inganno di cui un’ampia fetta di umanità è vittima.
E al quale spiegabilmente aspira e si ispira, ponendolo come gratificante traguardo. Massimiliano Barbin Bertorelli