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Il Nano Morgante | Ricchezza & infelicità

Una scena del film Django Unchained

Va controbilanciato l’usuale equazione “ricchezza=felicità”, sottraendo tale fausta previsione umorale dalla predazione dell’economia, in netta avversione al gergo consumistico.

Sostenere tuttavia, sintetizzando all’estremo, che il “povero” può considerarsi più felice del “ricco” (al netto dell’ostentazione), forse provocherà indignata sorpresa.

Nondimeno, la notazione si propone di ri-parametrare le possibilità di buon umore civico, qualsivoglia sia l’appartenenza sociale.

Se infatti l’ “in-felicità” la si assegna usualmente a chi ha disagio economico, la “felicità”, per differenza e per diritto, spetta alla “classe benestante”, visto il viscerale legame economico tra contentezza individuale e conto corrente, tra stato euforico e pil (Prodotto Interno Lordo).

Tale è l’infido e trasversale appiattimento innervato dall’Economia mondiale nella visione della realtà del “cittadino-cliente”.

Per rivalsa storica, chi sostenesse un “padrone” meno felice del “servo”, si sappia destinato alla pubblica gogna.

Estremizzare tuttavia agevola la provocazione insita nella narrazione. Una narrazione che, ricondotta entro un range  ordinario, non é utopica quando ipotizza un umore domestico e quotidiano in cui il “povero”, a sua insaputa, surclassa il “ricco”.

Una dato inatteso, sebbene risaputo, è che l’agiatezza economica è ben lungi dall’essere l’antidoto individuale al malessere. Essa, infatti, appena superata la soglia di casa, potrebbe rivelare l’afflizione tipica della “brama di avere, di valere e di potere”, citando Ricoer.

E’ tale “brama” ad allontanare dalla felicità, malgrado la vulgata si ispiri al contrario.

Il presupposto per cui la “felicità è diventata una questione economica”, citando Bauman, pare infatti riportare ad una diversa condizione originaria.  L’ affinità elettiva tra felicità e denaro é carente nei contenuti, in quanto sostenuta da una Società strutturalmente e visibilmente infelice, di cui anche la parte privilegiata (la ricca) non può che seguirne, anzi tracciarne, le orme.

L’idea del possesso di beni quando corrisponde all’unica visione di felicità terrena  evidenzia un tale condizionamento da possibilizzare in ciascuno, nessuno escluso, di “essere ceduto insieme al podere”.

In soldoni (!), sia Epicuro (“il desiderio illimitato è il principale ostacolo alla felicità”) che Freud ( “la felicità è la soddisfazione ritardata di un desiderio preistorico”) avvalorano quantomeno un fatto:  la ricchezza non porta felicità perché il denaro non rientra nei desideri dell’infanzia delle specie umana.

Massimiliano Barbin Bertorelli