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Racconti I Due musicisti appesi ad un filo

Settimo appuntamento con il musicista Piero Trofa. Come già spiegato, non è una collaborazione musicale, ma da scrittore.  Trofa è molto conosciuto nell’ambiente dello spettacolo, ed è autore di colonne sonore per documentari e spot pubblicitari, ed insegna musica in scuole pubbliche e private.

Alla musica si dedica completamente, sempre con grande attenzione agli aspetti formativi e alle connessioni che esistono tra musica e filosofia, la sua grande passione. Dal 1998 è presidente dell’Associazione Musicale Centro di Documentazione e Produzione Musicale “Ettore Panizza” con la quale organizza concerti ed eventi culturali in Italia e all’estero. In questo suo settimo racconto ci narra un’altra incredibile avventura con il suo amico “musico” Ludo…


Tornato a casa con la milionata, misi tutte le banconote sul tavolo e raccontai ogni cosa a mia moglie, anche dello scherzo che Ludo avrebbe voluto fare a sua moglie con la mia complicità, e le dissi che non volevo più avere a che fare con lui.

Mia moglie prima mi citò Solone, che diceva di non concedere amicizia troppo in fretta ma nemmeno interromperla precipitosamente, poi argomentò: “Ludo presenta indubbiamente dei tratti critici, però ricevere da lui un milione di lire per essere stato solo a guardarlo lavorare non mi sembra completamente un male; io per portare a casa altrettanto alla fine del mese devo lavorare per otto ore tutti i giorni. Aspetterei a vedere come si comporta prima di rinunciare alla sua collaborazione, se così possiamo chiamarla”.

Ho sempre dato ascolto a mia moglie perché, a parte l’amore e la stima, ci sono momenti in cui, per il tono serio della voce e per lo sguardo penetrante, ho l’impressione che sia Atena a parlare per bocca sua. Già allora credevo che fossero gli dei ad infonderci pensieri e sentimenti, a volte illuminandoci, a volte confondendoci, per realizzare le inconoscibili trame dell’universo. Così, mi convinsi definitivamente che era scritto nell’ordine di tutte le cose che io e Ludo dovessimo collaborare. Per lui invece l’esistenza era una serie continua di sfighe e non si doveva nemmeno perdere tempo a cercare di comprenderne il senso, semplicemente non c’era un senso, si doveva solo confidare nell’astuzia e nel culo. Detestava il mio fatalismo, mi diceva, con aria di biasimo: “se non giochi non vinci!”.

Andammo a casa sua per il compleanno di suo figlio e conobbi sua madre, suo padre, sua sorella e suo cognato. Di quest’ultimo mi colpì la taciturnità ed il fatto che se ne stesse in disparte, ma soprattutto l’espressione scettica con cui mi fissava, come se volesse dirmi qualcosa, forse un avvertimento. La sorella somigliava al fratello, sia nel fisico che nel carattere, ma era gentile, si commosse davanti a mia figlia, fece subito amicizia con mia moglie e le disse ottimista: “I ragazzi stanno bene assieme, solo che a vederli, si completano! Presto troveranno da suonare, ché Ludo ci sa fare!”. La madre era una donna alta e secca, con un sorriso beffardo sempre dipinto sul viso scarno; non appena mi vide mi apostrofò con lo stesso tono ironico del figlio: “Lei è il famigerato Pierin! Ma lo sa che me lo immaginavo uguale, spiccicato?!”.  Ludo si affrettò a dirmi, anche con una certa apprensione che non mi parve solo ironica: “Stalle lontano, che ti uccide”.

Suo padre era un omone gioviale con i baffi all’antica e vestito all’antica, aveva il panciotto, sembrava uscito da una commedia di Govi, era attratto unicamente dal buffet, non faceva che rimpinzarsi e quando suo figlio si mise a cantare gli stornelli genovesi, dopo averlo guardato come se si accorgesse solo allora della sua presenza, finalmente si decise a considerarlo per dirgli: “Belin, ma te sempre u solitu succidu!”.  Alla fine della festa Ludo mi apostrofò con tono di biasimo davanti a tutti: “Ormai siamo alla metà di giugno, Pierin, non è possibile che non siamo in giro a suonare! Bisogna muovere il culo e andare a cercarsi il lavoro. Ma questa volta non te ne rimarrai a casa a farti mangiare il belino dalle mosche, mi accompagnerai, se no non ti do un soldo. Domani mi farai il favore di presentarti qua alle nove, puntuale, che ci andiamo a fare un giretto in riviera e vedrai che torneremo vincitori”.

Tutti mi guardarono come se fossi l’imputato alla sbarra e non mi restò che annuire. Non era pigrizia, o meglio lo era solo in parte, la verità è che avevo una paura folle di andare in macchina con Ludo. Andava veloce, troppo veloce, spingeva al massimo quella vecchia carretta, alla quale purtroppo il motore funzionava ancora troppo bene. E più io lo imploravo di andare piano più lui accelerava, faceva stridere paurosamente le gomme nelle curve, controsterzava e non potevo far altro che pregare gli dei e frenare sul tappetino. Quando imboccammo l’autostrada subito risuonarono in me le parole di “In morte di S.F.” cominciai ad agitarmi e a segnalargli ogni pericolo: “Attento, c’è un restringimento di corsia! Occhio, si sta immettendo quel furgone! Ludo, non vedi che dietro sta arrivando una Porsche di gran carriera?!”. Ludo non mi ascoltava, continuava a guardare dritto davanti a sé, a volte mi rispondeva pigramente: “Ne prendo atto Pierin”.  “Se ne hai preso atto perché ti ostini a voler superare questo camion? Stai accelerando, anziché rallentare!”. Cosa sei, scemo? Se rallento come faccio a superarlo”. “Non devi superarlo! Non ce la fai a rientrare nel restringimento di corsiaaaa!”. Come in uno schermo televisivo vidi passare vicinissime le frecce bianche in campo azzurro delle tabelle segnaletiche. Ludo finalmente si girò e mi guardò incuriosito: “Belin, ma te mattu veramente, che ti crii, che siamo al chiuso”. “C’è mancato poco che andassimo a sbattere, è un miracolo che non sia successo!”. Sì, un miracolo, di Padre Pio! Era tutto calcolato pulcino, stanni bravo, se mai la prossima volta portati un libro dei tuoi, così te lo leggi e non stai sempre a sussarmi la cannetta e a frenare sul tappetino, che tanto non frena e me lo aggrovigli e poi mi tocca di metterlo a posto”. “Adesso però devi rallentare per forza perché c’è una curva!”. La curva è uguale al dritto”. “Non proprio direi, ehi, non vedi che stai troppo attaccato a quella Golf?! Finirai per tamponarla!”. “Sì, la figa tampono. Stanni bravo Pierin, se no ti scarico al primo autogrill, quando mai ti avessi incontrato”. “Credo che tu cerchi la morte, Ludo…”, gli dissi con gravità e lui rise sgangheratamente: “Ma non dire delle belinate. Sei matto veramente! Se vado piano non arriviamo più. Sei troppo pauroso, avresti dovuto vedermi quando ero giovane, che facevo le gare…”.

“E poi perché non le hai più fatte?”. Perché prima o poi succede che picchi e l’unica volta che ho picchiato ho avuto mai tanta sfiga che la macchina si è sfasciata tutta e mi sono rotto le costole. Allora con Gigi, il meccanico che ci aveva messo il grano, ci siamo detti di tutto e perciò ho lasciato perdere”. Quei racconti mi atterrirono vieppiù: “Attento a quell’autotreno, non vedi che ha deciso di superare?!”. Non è l’autotreno che ha deciso di superare, Ciccio, se mai è il guidatore dell’autotreno, e l’ho visto, non ti preoccupare, ti me angusci”. “Guarda, c’è la luna piena ed è giorno!”. Sì, adesso vedi se mi puoi fare pure la dichiarazione d’amore! Ma belin, prima c’era mio cognato e ora ci sei tu, perché ci deve essere per forza il matto nella mia vita? Mi chiedo dove sbaglio”. “Tuo cognato mi è sembrato un tipo tutt’altro che matto. È di poche parole, tipico dei saggi.”. Ecco appunto, se avesse aperto bocca avresti scoperto che vi potete dare la mano. Non mi parlare di lui, che vengo nervoso”.

Finalmente uscimmo dall’autostrada e ringraziai gli dei. Cominciammo a girare per locali, tra Rapallo e Santa Margherita. Ludo conosceva tutti quegli “osti della malora”, come li definì, i quali gli parlavano con una cortesia che mi pareva falsa, si dissero tutti dispiaciuti per essersi già accordati con altri musici. Stavamo per venir via da Santa Margherita con le pive nel sacco, quando Ludo decise ad entrare in un grande albergo dove, per quel che se ne sapeva, non erano mai stati fatti concertini di pianobar. Mi sorprese la sua capacità di farsi annunciare al direttore, al quale si presentò con il suo solito tono spavaldo: “Siamo due musici, due ragazzi splendidi, specializzati nel fare chiudere i locali. Che ne dice, facciamo un po’ di casino quest’estate, che qua mi pare un ospizio? Così alla fine della stagione arriva la buoncostume!“. Il Direttore, un uomo piccolo e mingherlino, con un naso puntuto e uno sguardo furbo, lo fissò divertito e gli disse: “Mi dia un po’ di tempo per pensarci. Se ne ha voglia potreste ritornare stasera, ceniamo assieme e ne parliamo”.

E Ludo stabilì che sarebbe a cena con il direttore ci sarebbe andato da solo, “ché se ci presentiamo tutti e due sembra che vogliamo andar là a mangiare” mi spiegò ed io gli dissi che ero felicissimo di restare a casa, l’importante era che quel signore ci ingaggiasse. Ma Ludo mi consigliò di non metterci troppo il cuore, perché quel signore, a suo avviso, aveva l’aria di avere il braccino corto ed era facile che prendesse solo uno di noi e quindi, dato che era stato lui a parlarci, in quell’eventualità l’escluso sarei stato io. Passai la serata in pena, nella spasmodica attesa che Ludo mi chiamasse, anche tardi, per comunicarmi che l’accordo era stato fatto. Ma Ludo non telefonò e alla fine mi addormentai con un forte senso di delusione.

Ma il bello e il brutto della vita di noi musici di serie C è che, nel e nel male bene, e da un momento all’altro, tutto può accadere e la mattina dopo successe l’imponderabile. Proprio nel mentre Ludo era a colloquio con il direttore, Emanuele Paganini, storico negoziante di strumenti musicali di Genova, si era recato ad accordare il pianoforte nell’unico hotel di Rapallo dove non eravamo stati perché Ludo era sicuro che in un posto così prestigioso fossero già a posto con la musica. E mentre Paganini accordava il direttore gli aveva detto che stavano cercando un pianista per la stagione e se poteva raccomandargli qualcuno. E Paganini aveva fatto il mio nome, così il direttore quella mattina mi telefonò e mi disse che c’era solo da suonare il pianoforte. Niente microfoni, niente mixer, niente altoparlanti da camallare, c’era solo da alzare il coperchio di un bellissimo Petrov a mezza coda e suonare per quattr’ore e poi via, a casa, a dormire. “Se le interessa venga subito, che ne parliamo, l’aspetto” mi disse il direttore in tono perentorio ed io gli dissi che tempo mezz’ora e sarei arrivato.

Erano le undici, Ludo non mi aveva ancora telefonato, dunque era assai probabile, se non certo, che si fosse accordato con l’ometto dal braccino corto per andarci a suonare da solo. Dunque, mi misi in macchina e partii alla volta di Rapallo, col cuore gonfio di speranza e di timore. Perché era anche possibile che Ludo fosse riuscito a piazzare il nostro fantastico duo e se io mi fossi accasato nell’altro albergo sarebbe sorta una questione che non osavo nemmeno immaginare. Il direttore del Grand Hotel di Rapallo era un tipo alto e distinto, impeccabile nel suo completo blu, con la camicia azzurra a nido d’ape e la cravatta Regimental tenuta ferma con la spilla d’oro. Fu molto accogliente e rispettoso, mi portò a vedere la mia postazione e mi spiegò gli orari: “Arriverà qui tutte le sere alle 19, con una bella giacca classica, mi raccomando, niente bretelle con le note musicali o altre eccentricità. Subito si recherà su al ristorante che a quell’ora è chiuso al pubblico, e cenerà con il barman, il responsabile dell’amministrazione e il vice direttore. Quindi, alle otto in punto, dovrà essere qui in terrazza, pronto a cominciare. Le finestre del ristorante saranno tutte aperte, così gli ospiti la sentiranno suonare soft; qualora finisse di cenare prima delle otto, cominci pure in anticipo, saremo lieti del suo omaggio. Gli ospiti dopo cena scenderanno giù e la ascolteranno seduti ai tavolini del bar, preparati a dovere. Lei suonerà fino a mezzanotte e 30, ma a volte è facile che si finisca prima. Sa, qui viene tutta gente d’età che va a letto presto. A proposito, le dico che proprio domani arriveranno i coniugi Hillman, nostri clienti da più di trent’anni, e come sempre si fermeranno tutta l’estate. Sono innamorati perdutamente della nostra bella riviera, ma sono molto esigenti e non dobbiamo rischiare di perderli. Dovrà superare il loro esamino, perché ogni novità li mette in agitazione. Erano ormai abituati al suo collega, quello con le bretelle con le note musicali, che è stato da noi per quattro anni. Pensi, quando arrivò, proprio loro volevano che lo mandassi via e adesso lo rimpiangono. Ho spiegato loro che voi artisti non potete rimanere troppo a lungo nel solito posto, altrimenti perdete la spinta creativa, ma i signori Hillman, pur comprendendo il concetto, non se ne fanno una ragione, è più forte di loro, quando ritornano da noi devono ritrovare ogni cosa esattamente al suo posto. Così sappiamo che dobbiamo assegnare loro la stessa stanza e ogni volta dobbiamo scardinare la porta del bagno e sostituirla con una tenda. E al ristorante dobbiamo farli accomodare al tavolo di sempre, e in spiaggia sotto lo stesso ombrellone e devono cambiarsi nella stessa cabina. E se notano una qualsiasi cosa o persona che prima non c’era, vengono a chiedermene ragione ansiosi e devo appellarmi a tutte le mie arti retoriche per rassicurarli. Vedrà che all’inizio la guarderanno con sospetto e dopo un po’ la inviteranno a sedersi al loro tavolo, per studiarla un po’. Le faranno delle domande, alle quali spero lei risponda con molta disponibilità e cordialità. Le dirò francamente noi troviamo indecoroso che il nostro pianista vada a sedersi al tavolo dei i clienti e si metta a chiacchierare con loro, ma per i signori Hillman si può e si deve fare un’eccezione ed io la vedo e sono fiducioso, lei ha un aplomb all’inglese, mi ricorda Buster Keaton, sono certo che risulterà loro simpatico. Sento che parla bene italiano, è colto, parlerà bene anche inglese, immagino”.

Trasalii e dal disappunto e confessai al direttore di non aver studiato le lingue perché mi ero laureato in filosofia, era la mia passione ed aveva preso tutto il mio interesse. Lui sussultò dalla gioia ed esclamò: “Ah, la filosofia! Meravigliosa! Da ragazzo ho studiato dai Gesuiti, sa? E la filosofia mi piaceva moltissimo! Ma di certo lei un po’ d’inglese lo masticherà!”. “Non lo parlo affatto, signor direttore. Spero che ciò non sia pregiudizievole”, dissi con tono di contrizione e lui sussultò di nuovo: “Ah, pregiudizievole! Che meraviglia sentir parlare un pianista (disse questa parola con una specie di sarcasmo) con questo eloquio così raffinato! È un vero peccato, certo! Non che lei sia un pianista, eh! No, che lei non sappia l’inglese come l’italiano, ma so che al liceo classico lo si studia solo nei primi due anni, vero? Avrei tanto voluto fare il liceo classico, invece ho fatto lo scientifico, pensando fosse più utile. Ho sbagliato. Adesso conoscerei il greco…” sospirò con lo sguardo forse perduto nei ricordi di giovinezza, poi si ridestò e mi disse con tono ottimistico: “Andrà bene lo stesso! I signori Hillman l’italiano un po’ lo parlano, non deve preoccuparsi, vedrà che comunicherete”.

Tornando a casa mi feci due conti. 150.000 lire al netto di IVA per un centinaio di serate, più o meno: significava ritrovarsi un discreto gruzzolo con il quale avrei potuto reggere almeno fino alla fine di dicembre; poi ci sarebbe stato il capodanno, Ludo era già in parola con un locale di Corso Italia il cui titolare voleva fare una serata indimenticabile e non vedeva l’ora di usare l’impianto luci e dei fumi… Ludo! Non mi aveva ancora telefonato e mi guardai bene dallo svegliare il can che dorme. Mi chiamò il giorno dopo, di mattina presto, la sua voce sembrava provenire dall’aldilà: “Io trovo sempre lavoro per tutti e due e a momenti ci lascio la pelle e tu figurati se mi chiami…”. “Cosa è successo?!”. Sono all’ospedale”. “Dio mio, stai male?”. Ma tra poco esco, mi hanno ingessato, vedessi che casino che mi han fatto, sono tutto impacchettato. Mi sono rotto l’omero sinistro, spaccato in due come una mela, porco cane!”. “Sei caduto?”. Magari, ieri tornavo da Santa Margherita, che tra l’altro ho concluso l’affare, sono uscito a Nervi e alla prima curva dopo il casello, la macchina è andata dritta”. “Beh, tu hai sempre detto che la curva è uguale al dritto…”. Io per un pelo non m’ammazzo e tu fai lo scemo! Se ci fossi stato anche tu, magari mi ti toglievo di torno. Ho preso in pieno una Punto, un bel frontale, per fortuna che quell’altro non si è fatto niente, ma le macchine sono distrutte, se le vedi ti spaventi”. Rabbrividii, non avevo parole e dissi le prime che mi vennero alla bocca: “Che si prova?” Ludo stranamente non si arrabbiò e raccontò: “Solo una grande rabbia, sono uscito fuori che volevo spaccare il mondo, ma non riuscivo a parlare, girava tutto, non sentivo ancora il dolore all’omero, ma ero ben sveglio. Meno male che sono riuscito a frenare, se ci fossi arrivato appena un po’ più veloce adesso non sarei qui a raccontartela. Mi hanno portato a San Martino e mi hanno tenuto in osservazione per tutta la notte, mi hanno fatto le lastre. Omero sinistro spaccato, ne avrò per tre mesi con questo catafalco addosso, una rottura di coglioni che non ti dico, mi prude dappertutto e non posso grattarmi…”.

“Non potrai suonare per un po’…”, avanzai preoccupato pensando al fatto che aveva concluso con il direttore dal braccino corto. Ludo rispose: “Meglio, che tanto suono di merda. Per fortuna mi hanno lasciato libero mezzo braccio destro e anche un po’ la mano, così posso almeno mangiare e sciaccare i pumelli di play e stop. Ho già sentito il direttore e l’ho convinto a ingaggiare anche te, ché all’inizio non voleva, così andiamo con la tua macchina, camalli, monti tutta la roba e suoni e io canto e basta. Da solo non ce la potrei mai fare. Non sei contento?”.

Mi sentii gelare. Attendere sarebbe stato peggio, così parlai. “Ludo, il fatto è che io non posso esserci”. Come non ci sei!”. Gli raccontai in breve del mio ingaggio al Grand Hotel di Rapallo e lui cominciò ad urlare: “Ma lo vedi che sei stronzo nell’anima! Belìn non trovi mai una serata e proprio adesso che mi sono rotto in due, mi rimedi addirittura la stagione intera in un albergo a cinque stelle! Abbandoni l’amico nel momento della bisogna! Vaffanculo! Quell’altra ciattella di Paganini, poteva farsi i cazzi suoi! Adesso si è messo pure a fare l’impresario! E quanto ti darebbero a Rapallo, sentiamo”. “150.000 a serata per un centinaio di date”. “Nette?”. “Sì, l’IVA è a parte, ovvio”. OVVIO! Sentilo lui, è venuto una volta con lo zio e già ha imparato a fare le trattative!”, così parlò Ludo, poi stranamente assunse un tono calmo e mi disse come ragionando fra sé: “Con lo zio ne avresti guadagnate 125.000, perché ne ho spuntati 250.000 in due a sera e il numero di serate è più o meno lo stesso. Tu li prendi netti, perché farò fatturare da mia moglie, diremo che affittiamo la strumentazione all’albergo, andrò a fare la dichiarazione di gratuità all’ENPALS e ci sarà da ridere quando mi vedranno con quest’imbragatura. Dunque, caro il mio amico Pierin: sono due trombe e 500.000 Lire di differenza per tutta la stagione, figurati se tu, che pensi solo al tuo tascone, rinunci a tutto quel grano per aiutare il tuo povero collega in disgrazia, mi viene in mente il ridere”. Mentre Ludo andava avanti ad attribuirmi i peggiori tratti del cuore umano, io cercavo una possibile soluzione del problema. “Potrebbe venire Francesco.” gli proposi. “E chi è Francesco”. “Un cantante che mi ha contattato la settimana scorsa, dice che va in cerca di serate, gli ha dato il mio numero Paganini”. Cioè, fammi capire, Paganini ha dato il tuo numero a questo Carneade perché ti chiamasse per trovare delle serate e lui ti ha chiamato? Ma voi siete tutti matti!”. “Perché?”. Perché lo devi mandare a fare in culo!”. “Secondo me conviene collaborare tra noi musici.”. E che è, la giustizia, che conviene collaborare? Quello ora imparerà tutti i posti dove andiamo a suonare e ce li ciullerà alla grande. Sei proprio scemo, il bello è che lo sapevo!”. “Non credo che Francesco sia pericoloso, è agli inizi, sembra sia bravo, e poi ha la macchina, ti può portare. È motivato, ha un repertorio vasto, canta le canzoni di Albano, dei Pooh, di Baglioni, di Zucchero… Mi ha assicurato di avere una bella voce e anche una notevole estensione vocale”. “Sì, l’estensione del belino, ti ha assicurato. È agli inizi, figuriamoci, sarà uno dei tanti scabèci che stanno spuntando come funghi. Tutti cantanti, adesso che c’è la base e lo schermino dove leggi le parole messe bene a tempo! Vabbè, dammi ‘sto numero che chiamiamo Francesco, merdaccia che non sei altro. Vai a Rapallo, a fare il grano alla faccia mia che sto mezzo sciancato!”.

Ludo non si fece più sentire ed io non osai cercarlo. Il giorno dopo la prima serata, gli telefonai per sapere come si era trovato con Francesco e lui bofonchiò: “Certo che uno un po’ meglio me lo potevi mandare. Tu e Paganini siete due pericoli pubblici”. “Non è bravo?”. Bravo? Belin, intanto mi dici che è agli inizi e c’ha sessant’anni, è un pensionato delle Ferrovie!”. “E vabbè, come cantante è agli inizi”. “Ma vai a cagare, mi fai gli scherzi e rischio di perdere il posto! A parte che fa angùscia a cantare, è pure un albero da brutte figure, si è presentato con una camicia a fiori blu e pretendeva di mettere le basi e star lì a braccia conserte a leggere le parole sullo schermo, seduto sullo sgabello del bar. Gli ho detto: senti, non è che sei venuto a dire la messa. Anche se non sai suonare, magari le mani sulla tastiera metticele, eh, tanto è muta, non aver paura che suoni. E muovile le mani, fai finta di essere Emerson, fa più scena e non ci vengono poi a dire che non siamo capaci di fare il mestiere.” Belin, e lui che cosa fa? Sulla tastiera ci mette un dito solo e comincia a muoverlo come se fosse mezzo paralitico. Allora gli ho detto: “vedi, Francesco, se sui tasti ci metti solo il dito indice e lo muovi che sembri monco, e intanto la base suona che sembra un’orchestra intera, tutti penseranno che sei un fenomeno e qui i fenomeni non li vogliono, perché costano troppo. Metticele TUTTE E DIECI quelle cazzo di dita, visto che non sei monco, almeno fino a quando non mi fai incazzare, se no ci sputtaniamo, compris?”. Lui mi guarda e mi fa: “Ah…” e ride come un deficiente. E non voleva nemmeno mettere in mute la linea melodica delle basi, gli ho detto: “quel “din-din-din” mentre canti fa proprio schifo, toglilo” e lui mi ha detto: “ma se non sento la guida della melodia mi perdo!” Belin, questo qui non può andare manco alla corrida. E come se non bastasse, ad un certo punto vedo che aguzza lo sguardo verso la gente seduta e mi dice: “quel tizio pelato seduto su quella sdraio, belin, ma lo conosco, lavorava con me in ferrovia, adesso vado e lo saluto!” Ma che cazzo dici, quello è un miliardario americano! Meno male che l’ho fermato in tempo. E poi ti dirò, non è che le canzoni di Albano e dei Pooh le canti bene. Le vuole cantare tutte in tonalità originale ma ci arriva a stento e ci rimane appeso, gli ho consigliato di abbassarle almeno di un tono, e si è offeso, il grande tenore. Alla fine della serata se n’è venuto fuori che non sa se potrà venire con continuità, per un certo periodo dovrà andare dai suoi parenti in Sardegna. Allora lo vedi che non ha bisogno di lavorare? E viene a cagare il cazzo proprio a noi che lo facciamo di mestiere? E tu sei ben lieto di sbolognarmelo, credi che non l’abbia capito? Fammi questo piacere, Pierin, vienici te, che almeno sai suonare. Basta solo che non parli ed è perfetto”. “Ma io sono a Rapallo, Ludo, lo sai”. “Eh, si che lo so, ma ci ho studiato e possiamo risolverla in questo modo: partiamo mezz’ora prima, mi porti a Santa Margherita, camalli e monti tutto l’ambaradero, ceni con me e poi te ne vai a fare in culo al Grand Hotel, che ci metti dieci minuti. E quando finisci, che là si fa presto come qua, ripassi, smonti tutto l’ambaradero e mi riporti a casa. Il direttore si è impietosito nel vedermi in questo stato pietoso e soprattutto dopo che ha visto Francesco con quella camicia mi ha detto che se me la sento ce la posso fare da solo, che è meglio, e mi darebbe 200.000 a sera. Così, se mi fai da autista e da camallo per tutta la stagione, ti darei 25.000 ogni volta, tu fai l’opera buona e ti guadagni ancora qualcosa, che ne dici?”.

Pensai che Ludo era un commerciante nato e che 25.000 lire per 100 sarebbero stati 2.750.000 lire che mi sarei ritrovato in più a fine stagione. Non potevo rifiutare. “E sia”. E u credu ben, scignuria, vorrei vedere se mi dici di no!” gridò Ludo trionfante. La sera dopo procedevamo entrambi verso Santa Margherita a bordo della sua nuova Renault Espace di terza mano, comprata in fretta e furia da un suo conoscente che trafficava in auto usate. Questa volta al volante c’ero io ed era già tanto.

“Belin, questo torpedone non va un cazzo” osservò Ludo contrariato una volta che avemmo imboccato l’autostrada. A vederlo in quel catafalco di gesso ricoperto da uno strano tessuto color carne pensai che era davvero tosto: soltanto tre giorni prima era all’ospedale dopo uno scontro frontale e adesso era lì che andava a fare la seratina conciato così.

E pensai anche che le vite di tutti, non solo le nostre, erano sempre appese ad un filo, era inutile cercare di programmare, non potevamo avere neanche la certezza di riuscire a portare a casa la pelle quella sera stessa. Eppure non potevamo non immaginarci il futuro, ci saremmo sentiti senza alcun appiglio. Quando entrammo nel parcheggio dell’albergo ci venne subito incontro un inserviente con un carrello di ottone tappezzato di velluto bordeaux e mi aiutò con sollecitudine a caricarci su la strumentazione. Ci disse che era appena arrivato dall’Albania e Ludo mi sussurrò con invidia: “Questo qui sì che c’ha culo, con la miseria che prende qui a casa sua ci si compra un palazzo. Altro che noi poveri sfigati, vorrei essere anch’io albanese e venire a suonare qui”.

Ludo mi precedeva e io lo seguivo spingendo quel trabiccolo che a volte sbandava e facevo una fatica bestiale a rimetterlo in rotta. Percorremmo lunghi corridoi, attraversammo sale deserte in cui l’aria era calda e soffocante ma che a breve sarebbe diventata gelida quando avrebbero azionato i condizionatori. La postazione musicale era in un giardino, sotto una terrazza, così in caso di pioggia gli strumenti non si sarebbero bagnati.

Avevo appena finito di montare tutto l’impianto che ci si avvicinò una signora anziana tutta sorridente che chiese a Ludo con tono materno se si sentiva meglio e Ludo barbugliò qualche parola di circostanza con evidente malumore. La signora mi guardò incuriosita, poi disse a Ludo quasi delusa “Ma questa sera non c’è Francesco, c’è quest’altro ragazzo…”. Ludo dopo poco si decise a risponderle, sempre con il suo tono seccato: “Francesco s’è perso e non sa tornare. Si è innamorato perdutamente e ha deciso di trasferirsi per sempre in Sardegna dal suo grande amore. Sa come sono gli artisti, hanno di questi colpi di testa. Però Pierin è il miglior pianista sulla piazza”. La signora sussultò emozionata: “Oh, che bello, Francesco si è innamorato! Lo dicevo che era un così caro ragazzo!”. Belìn ragazzo! Sessant’anni suonati!

La signora mi squadrò di nuovo da capo a piedi, poi disse: “Ma se il signor Pierin è il miglior pianista sulla piazza, allora saprà suonare il Notturno di Chopin!”, Ludo mi intimò: “Sii gentile, Pierin. Fai sentire alla signora il Notturno di Chopin”.

Io subito intonai le prime note del Notturno ma dopo quattro battute Ludo mi fece cenno con la mano di smettere. “Basta, è troppo per quello che ci danno”. “Ha smesso! Peccato, era bellissimo!” esclamò la signora piegando le labbra verso il basso come una bambina dispiaciuta, ma poi si rianimò: “Allora stasera ci sarà anche il signor Pierin e mi suonerà Chopin!”. Le sue pupille brillavano di speranza. Ludo la guardò ironico e le disse: “Eh, ma Pierin mica viene qui per sport! Ci devi dare il grano, già solo per portarmi gli strumenti mi costa una cifra, per cui, se lo volete, al vostro buon cuore…”. Intanto si erano avvicinate altre due signore anziane. “Abbiamo sentito un Notturno meraviglioso! Il Maestro è bravissimo, siamo felici che ci sia anche lui stasera!”.

Ludo disilluse anche loro: “No, Pierin adesso cena a scrocco e poi se ne va a suonare a Rapallo perché è uno stronzo”. Le tre signore risero un po’ imbarazzate. “Ma non c’è più Francesco…” disse una delle due appena arrivate: “No, ci sono io e basta, è meglio”. Spiegò Ludo risentito. La signora di prima spiegò alle altre due: “Francesco si è innamorato e ha inseguito la sua amata in Sardegna!”. Quelle trasalirono e bisbigliarono “Che romantico… Non è vero che non ci sono più gli uomini passionali di una volta… Mi si apre il cuore…”. Poi la prima signora si rivolse a me: “Senta signor Pierin, lei oltre a suonare canta?” Intervenne Ludo e suggerì: “Gli chieda “Champagne”, sa cantare solo quella, così intanto regolo il microfono”. “Adoro Peppino Di Capri e specialmente “Champagne”! Ieri ho chiesto a Francesco se me la cantava, mi ha detto di sì, ma poi non me l’ha cantata…”. Ludo spiegò: “Non è stato per scortesia, signora cara. Non la canta nessuno di noi, se no gliela bruciamo a Pierin, non ne sa altre, gliel’ho detto”.

Fece partire la base ed io cantai “Champagne”, le signore erano estasiate, alla fine mi applaudirono emozionatissime e sempre la solita signora mi disse euforica: “Ma lo sa che lei somiglia a Peppino di Capri? Ha la stessa voce!”. “Di merda. Nasale, sui toni medi, i più brutti a sentirsi” commentò Ludo.

“Ecco chi mi ricorda! Gaber!” – disse un’altra signora, poi aggiunse: “Sa cantare per caso anche una canzone di Gaber?”. “No! Voglio sentire un’altra di Peppino di Capri!” disse la terza.

“Perché non vi levate dai coglioni? borbottò Ludo ben sapendo che le tre signore erano deboli di udito, poi aggiunse, stavolta a voce alta e simulando rammarico: “Ci dispiace ma ora dobbiamo andare a cena, che anche a noi musici viene fame e, non lo direste, meno male che ce ne danno”.

Le signore si scusarono e si allontanarono bisbigliando fra loro. Ludo mi disse deluso: “Lo vedi che sei proprio stronzo nell’anima? Queste si innamorano, danno anche le mance, se facevamo la stagione assieme alla fine prendevi gli stessi soldi. Mi sa che telefono al direttore del Grand Hotel di Rapallo e gli dico di cercarsi un altro pianista, se mai ci mandiamo Francesco, così li fa scappare tutti e se ne vengono qua!”.  Gli dissi che invece era meglio che me ne andassi a mangiare là, ma lui non volle: “A quest’ora trovi coda e finisce che poi non mangi. Stai qua, facciamo presto, vedrai che è bello”.

Il ristorante era effettivamente bello e accogliente, un salone enorme, in quel momento era vuoto, tutti i tavoli bianchi, apparecchiati a regola d’arte, stavano in attesa come spiriti austeri e i raggi obliqui del sole al tramonto spandevano dovunque una luce d’oro. Come sbucato dal nulla, comparve il maître, un uomo di mezz’età, basso, tondo e mezzo calvo, molto elegante con il suo abito nero e il papillon. “Maestro, i miei rispetti…” disse a Ludo con tono di autentico rispetto e fece un inchino ossequioso. “Sì, maestro d’ascia” gli rispose Ludo contrariato, guardando altrove. “Cosa le fa piacere mangiare stasera?” gli chiese il maître con indomabile cortesia. “E mi faccia portare un piatto di crudo e una mozzarella di bufala, del pane, dell’insalata fresca e una bottiglia d’acqua” brontolò Ludo. “Naturale o gasata?”. “Ma anche del bronzino va bene, purché sia fredda”. “Nient’altro?” domandò il maître come deluso e Ludo replicò fermo: “Nient’altro”.

Il maître si rivolse a me e mi parve che m’implorasse complicità: “Invece per lei? Le farebbe piacere mica un bel piatto di tagliatelle con gamberi e zucchine?”. “Perché no?” gli dissi cordialmente e vidi Ludo girarsi a guardarmi con curiosità. Il maître continuò a proporre: “Per dopo, magari le farei portare un filetto di orata alla ligure, va bene?”, Ludo intervenne con tono ironico: “E l’oratina direi che ci sta proprio bene dopo i gamberetti con le zucchine”.

Io feci un cenno di assenso e sorrisi fanciullescamente, e il maître proseguì con le proposte: “Oltre all’acqua, e mi dirà cortesemente se la preferisce naturale o frizzante, gradisce anche un calice di vino bianco?”. Annuii cortesemente. “Vermentino o Pigato?”chiese il maître e ribattei prontamente: “Mi rimetto alla sua competenza.” , e il maître sussultò di gioia: “Lei è troppo gentile Maestro, farò del mio meglio. Allora direi che per finire un bel dolce!”. Ludo commentò sarcastico: “Non ci facciamo mancare niente”. Il maître sembrava al settimo cielo e mi domandò affabilmente: “Anche per il dolce decido io? Va bene crostata di albicocche?”, “Certo!” esclamai entusiasta. “Ci mancherebbe” chiosò Ludo, poi aggiunse come risentito: “E comunque, caro maître, qui di maestri nu ghe n’è e se proprio ce ne fosse uno sarei Io, lui mi porta le valige”. Il maître non disse nulla e si allontanò. “Diciamo che sei venuto a mangiare, Pierin, e pure bene. Non puoi negare che lo zio ti sta trattando come un principe, altro che camallo: la paga è buona, il vitto abbondante e di qualità, e non gravi sul bilancio familiare, cosa vuoi di più, culo largo, non ci posso pensare che l’incidente sia toccato a me e non a te!”. “Perdonami se mi sono lasciato tentare dalle proposte del maître, forse dovevo prendere anch’io solo del prosciutto e una mozzarella, ma per me quello che ci viene offerto con gentilezza sincera è nequizia rifiutare”.

Dissi con un certo tono teatrale e Ludo sbottò: “Belin, queste sono le tue perle di saggezza, filosofo Pierin! Ma ti dirò che sei stato un signore a fermarti al dolce, Francesco ha voluto pure il caffè e un grappino. Vedrai che quando te ne vai il direttore ti fermerà e ti chiederà se hai mangiato bene”.

Quando passai davanti al direttore lui mi guardò da sopra agli occhiali ma non mi disse nulla e subito mi precipitai nel parcheggio e salii a bordo del torpedone di Ludo, perché solo allora mi accorsi che ero in ritardo. Arrivai appena in tempo per cominciare a suonare, mi sedetti al pianoforte e mi sentii stanchissimo all’idea che tutta quella storia si sarebbe ripetuta tutte le sere, per tre mesi di fila e oltre. Allora mi dissi che se mi trovavo là era per il volere degli dei e dunque era scritto che ce l’avrei fatta e mi passò tutto. La serata andò senza contrattempi, finché vidi arrivare una coppia di signori anziani vestiti in modo eccentrico: lei portava un cappello giallo sul tipo di quelli della regina Elisabetta d’Inghilterra, lui indossava un completo di lino, era rosso in faccia come un peperone, aveva la barba bianca lunga e un poco ingiallita dal tabacco e una volta seduto subito si accese la pipa. Pensai che non potevano essere che gli Hillman e infatti cominciarono a fissarmi e non mi tolsero più gli occhi di dosso. Dopo un quarto d’ora, lui mi fece cenno con la mano di andare lì al loro tavolo ed io mi alzai dal pianoforte e percorsi alla svelta la grande terrazza di marmo che emanava ancora il calore del sole e quando fui loro da presso li salutai in inglese: “Oh, good night!” risposero loro con voce flebile e affaticata. Cominciò l’interrogatorio: “What’s your name? Where are you from? How hold are you? Do you speak english?”, io risposi come potevo: “No, I’m sorry, I speak english very very little”. Lei era un po’ sulle sue, lui invece mi manifestò simpatia: “Oh, sorry Peter, my friend!”.

Per fortuna, sebbene cercassi sempre di abbozzare una risposta, non mi lasciavano il tempo di rispondere e si rispondevano da soli, e non capivo quasi nulla, e quando capii che mi chiesero in quale conservatorio avessi studiato risposi in italiano e non capirono, ma annuirono sorridendo, ma quando dissi loro che mi ero laureato in philosophy sembrarono capire e furono contenti. Pensai che per superare il loro esame dovevo fare durare il più possibile quel dialogo surreale e così andammo avanti per parecchio, finché si stancarono e non parlarono più ed io mi misi a parlare soltanto in italiano, a volte traducevo i termini in un inglese maccheronico e loro si limitavano ad annuire e dire: “Oh, well! Very well! Fine! Yes!”. Mi offrirono da bere ed ordinai un succo di ananas e il barman me lo servì in un panciuto bicchiere di cristallo ricolmo di cubetti di ghiaccio, con un ombrellino di carta piantato in una fetta d’ananas. Lo sorseggiai con parsimonia sperando che il tempo passasse in fretta. Quando finalmente i due vecchi si alzarono per andarsene a dormire su quella terrazza non c’era più nessuno, il barman aveva messo via tutti i cuscini blu delle seggiole di ferro laccate bianche e con un sospiro di sollievo prese anche i nostri e li portò nello sgabuzzino.

Arrivai all’albergo di Santa Margherita all’una e mezza circa. Entrai nella hall e subito vidi Ludo che dormiva su una poltrona, ingabbiato nel suo catafalco. Non appena gli fui da presso, spalancò gli occhi. “Arrivi adesso?! Che ore sono!”. “Non è tanto tardi, sarà l’una e mezza circa…” gli sussurrai con tono di scusa. “Non è tardi?! Hai fatto capodanno!” disse a voce alta e il portiere di notte sollevò lo sguardo dalla rivista che stava leggendo.

Raccontai a Ludo dei coniugi Hillman. Non ci voleva credere: “I due vecchi signori inglesi che ti fanno l’esamino e tu là che te ne stai seduto al tavolo a berti il succo d’ananas come una entraîneuse, gli racconti la tua sorte, sai che cazzo gliene frega, e poi ti sarai messo ad enunciare le tue trovate filosofiche, che già non si capisce un cazzo quando parli in italiano figuriamoci in inglese… E poi non lo sai manco parlare, figuriamoci che conversazione brillante! Ma possibile che in qualunque posto tu vada lo trasformi in una gabbia di matti, tu e la tua cultura, sei una mina vagante. Ed io qua che aspetto come una belina su questa poltrona che mi fa caldo, l’infermo in attesa al pronto soccorso. Soltanto che questo NON è il pronto soccorso e la gente che passa mi guarda storto. Non mi dirai che andrà così tutte le sere, perché se no è meglio che la piantiamo subito”.

Invece andò esattamente così per tutte le sere, fino alla metà di settembre, perché I coniugi Hillman si affezionarono molto a me e tutte le volte dovetti sedermi al loro tavolo fino a notte, a fare conversazione, e mi diedero mance per un totale di 500.000 Lire. Ma qualche volta pure capitò che fossi libero e così potei andare a fare la seratina con Ludo all’albergo di Santa, per la gioia delle signore che poterono ascoltare “Champagne” e il “Notturno di Chopin”. E alla fine della mia performance, Ludo passava tra loro con un cappello a cilindro che sua moglie gli aveva procurato ed esortava i presenti a metterci dentro una mancia per il pianista che poi dividevamo fraternamente. Il giorno dopo, quando passavamo con il carrello carico di strumenti, incontravamo il direttore che ci fermava e ci diceva: “Mi hanno riferito che ieri è andata benissimo! Pierin dovrebbe venire sempre!”, e Ludo gli diceva: “Per carità, è la volta che fallite!”.

Mi sembrava impossibile che potesse finire, ma la stagione finì e il direttore del Grand Hotel di Rapallo mi congedò con la promessa solo formale, nonostante la simpatia riscossa presso i coniugi Hillman, che ci saremo rivisti l’anno dopo. Anche Ludo ebbe dal direttore dal braccino corto la promessa solo formale che sarebbe tornato a suonare al Grand Hotel delle signore anziane. Non ne poteva più, con una settimana di anticipo rispetto a quello che i medici gli avevano raccomandato, si strappò di dosso l’imbragatura e si mise sotto la doccia fredda, seduto su una sedia, senza nemmeno levarsi i pantaloni.

Quando si presentò in ambulatorio per farsi mettere il tutore, i medici lo rimproverarono duramente, ma l’omero andò a posto lo stesso. Insomma, eravamo sempre appesi ad un filo e non potemmo far altro che contare i soldi. Erano tanti: “E anche quest’anno passeremo l’inverno, caro Pierin, tu mi insegni che anche con poco si vive”.

Così parlò Ludo, ridendo di scherno, poi si fece serio e aggiunse: “Però pian piano veniamo vecchi e dobbiamo pararci il culo prima che sia tardi, dobbiamo diversificare la nostra attività. Mi è venuta una idea geniale: lo studio di registrazione. Domani andiamo su da Merula e investiamo…”.

Il suo tono mi suonò come una minaccia e rabbrividii: avevo già pensato di mettere via tutto quel bel gruzzoletto per i tempi di magra e Ludo aveva già deciso di dilapidarlo. Mi guardò sorridendo come se mi avesse letto nel pensiero e mi disse col suo solito tono spavaldo: “Non fare quella faccia preoccupata. I soldi che spenderemo domani ce li rifaremo alla grande e non passerà tanto!”.

Sia pure con il cuore gonfio di preoccupazione, annuii: d’altronde era tutto scritto, non avevo scelta.