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L’elisir d’amore, il gioco e il rischio d’amore nel melodramma

L'elisir d'amore

Lunghi applausi a scena aperta per i giovani solisti dell’Accademia del Teatro Carlo Felice alla prima dell’Elisir d’amore di ieri sera, che sarà rappresentata fino a mercoledi 16 giugno.

Questo melodramma “giocoso” in due atti, composto da Gaetano Donizetti nel 1832 (il libretto è del genovese Felice Romani), fu rappresentato nel maggio dello stesso anno al Teatro milanese della Canobbiana, considerato il “fratello minore” della Scala e ubicato alle spalle del  Palazzo Reale.

L’elisir d’amore

“Giacchè a me per tua gentilezza lasci la scelta della dedica dell”Elisir d’amore”, io te ne sono gratissimo, e questo sia Al Bel Sesso di Milano”… Chi più di quello sa distillarlo? Chi meglio di quello dispensarlo?”: così rispose Donizetti alla richiesta dell’editore Ricordi sulla partitura dell’opera, completata in due settimane.

L’ambientazione di questa favola, apparentemente semplice ma assai sagace  nella descrizione dei profili psicologici, è  villereccia, colorata e coreografica, come del resto la musica, il convivio, la danza e la canzone popolare  che si rincorrono  nello scorrere della vicenda.

Tra i protagonisti c’è anche il vino, bevanda miracolosa con le virtù di un  elisir  che procura l’amore di giovani desiderati e riluttanti.

La presenza del vino nell’opera  è una costante nella storia della musica: pagine e note dedicate al vino provengono da compositori immortali, Verdi, Mozart, Puccini, Mascagni: vino e musica hanno in comune la  capacità di unire, donare gioia, far dimentare gli affanni e, talvolta, di aprire ad un mondo onirico.

In un villaggio del diciottesimo secolo il timido coltivatore Nemorino è innamorato di Adina, fanciulla di condizioni agiate: ma non dalla posizione economica è attratto il giovane quanto dalla di lei intelligenza poichè “ella legge, studia, impara”.

La fanciulla, consapevole di essere capricciosa e forse troppo giovane per capire l’inclinazione dei propri sentimenti, non gli lascia speranza alcuna, pur apprezzando la sincerità  e  la modestia dell’animo dell’innamorato.

Ma un bel giorno arriva in paese il “dottor” Dulcamara, un ciarlatano  che si autodefinisce noto in tutto l’universo,  proponendo a Nemorino un mezzo di conquista infallibile, una pozione da usare con un accurato rituale: la bottiglia si scuote, si stappa senza far uscire il vapore, si beve centellinando e l’effetto non tarderà a manifestarsi (anche perchè l’elisir proposto è in realtà un ottimo vino di Bordeaux…).

Nemorino beve a larghi sorsi e ne rimane inebriato, “o caro elisir, com’è possente la tua virtù, oh qual di vena in vena dolce calor mi scorre…forse anch’essa la fiamma stessa incomincia a sentir…me l’annuncia la gioia e l’appetito che in me si risvegliò tutto a un tratto…”

Quella buona bottiglia riesce nell’intento di trasformare l’esitante Nemorino in un giovanotto brioso ed allegro, tanto che, sicuro del risultato promesso, finge indifferenza verso Adina e desta prima la meraviglia e poi il disappunto di lei che, per ripicca, accetta l’offerta di matrimonio del sergente Belcore.

Aiai, urge affrettare l’azione dell’elisir con una seconda bottiglia: per procurarsi i soldi Nemorino accetta di arruolarsi  nella guarnigione di  Belcore.

Ma un evento imprevisto è in agguato: un’eredità di cui il  coltivatore sarà l’ultimo a sapere (splendida, divertente e senza tempo la scena in cui tutto il paese si passa la notizia, raccomandando il silenzio a chi ascolta) rende Nemorino corteggiatissimo tra le ragazze del paese e interessante agli occhi dei compaesani, un vero gallo della Checca, “che tutte segna e becca”.

Il nostro, che ancora non sa di essere diventato ricco, attribuisce all’elisir il merito di cotanto successo, e inoltre  quello di aver provocato una furtiva lacrima di gelosia e rammarico che pensa di vedere  negli occhi di Adina.

Alla fine, commossa dal fatto che Nemorino voglia arruolarsi  per andarsene dal paese se non avrà il suo amore, la non più  riluttante Adina riscatta di tasca sua il prezzo dell’arruolamento e si rende conto di amarlo.

L’imbonitore Dulcamara ne approfitta per convincere tutti gli abitanti dell’ efficacia del suo elisir, che non solo procura l’amore ma fa anche arricchire gli spiantati e lascia il paese da vero trionfatore: ma non prima aver tentato di abbindolare anche Adina, che gli rende la pariglia regalandogli una completa ed esaustiva lezione di come si seduce un uomo senza alcun “elisir”.

Una favola romantica, bilanciata tra il comico e il patetico, che  presenta  aspetti  raramente colti dai più di aderenza con la realtà e narra, con sottile perspicacia, l’iter dell’innamoramento, laddove inganno e sentimento, come spesso succede nella vita, non si escludono a vicenda.

I giovani interpreti solisti dell’Accademia, ben individuati anche nei panni dei rispettivi ruoli, non si risparmiano nel porgere le loro voci potenti e perfettamente impostate, mostrando anche  apprezzabili  doti  d’attori.

Commovente l’attesa  romanza “Una furtiva lacrima”, sempre di grande presa sul pubblico, che strappa interminabili applausi. Convincente, come sempre, l’orchestra del Teatro, sapientemente diretta dal giovane maestro concertatore Alessandro Cadario.

Bella la scenografia improntata al verde e marrone degli alberi, alcuni mobili, in una ambientazione dai colori mantecati e lietamente autunnali.  Ammirabili i costumi  che ricordano le illustrazioni di antiche favole  e contrastano piacevolmente con il realismo psicologico di quasi tutti i personaggi.

Con ques’opera il Teatro Carlo Felice intende rendere omaggio al centenario della nascita di Lele Luzzati, il cui stile, amante del  tratto incisivo e talora grottesco ( ma fa capolino qua e là la dolcezza di alcune fisionomie), dove il coloratissimo e l’onirico sono sempre  presenti,  appare perfetto per l’ìmpostazione delle scene di quest’opera.

Commenta il regista Davide Garattini: “A colpire la mia fantasia, più di tutto, è stato  il Carro di Dulcamara. Un capolavoro! Potrei fare quest’opera solo con questo elemento e togliere tutto il resto, purtroppo a causa delle restrizioni anti Covid, posso usarlo limitatamente; ma mi piacerebbe  fare un Elisir d’amore usando, unicamente,  tutte le diverse sfaccettature di questo carro.

Il carro di Dulcamara, è senza dubbio l’espressione perfetta di Luzzati e la mia idea di questo Elisir, un grande carro colorato, tipico dell’arte dell’artista genovese, pieno di immagini vive e sorridenti, di profili e pennellate veloci. Un affresco che si apre piano piano fino a mostrarsi nella sua totalità.”

L’elisir d’amore resta al Carlo Felice fino al 16 giugno con repliche serali venerdì 11 e mercoledì 16 giugno, alle ore 20.00 e repliche pomeridiane sabato 12 e domenica 13 giugno, alle ore 15.00.

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Gaetano Donizetti (1797- 1848 ) nasce  a Bergamo da una famiglia poverissima e carica di figli. Forse a causa della tensione verso il superamento della miseria è dovuta la sua copiosa  produzione artistica:  era infatti noto col soprannome di “Dozzinetti”.

L’autore  scrisse ben 70 opere, delle quali  la drammatica “Lucia di Lammermoor”, composta  in trentasei giorni  e rappresentata nel 1835 al San Carlo di Napoli, è considerata il suo capolavoro.

Ciononostante l’autore era  comunque attento alla qualità delle sue creazioni ed interveniva sui libretti in maniera  decisa ed equilibrata.

Anche negli anni 1836 e 1837, funestati da ben cinque lutti famigliari tra cui due figlie e la moglie, Donizetti, pur affrontando momenti di buio sconforto, non smise di lavorare,  indifferentemente ad opere buffe e a drammi romantici. Asseriva il Nostro: “Quando ho nella testa della musica buffa sento un picchio molesto alla parte sinistra della fronte; quando è musica seria sento la stessa molestia dalla parte destra “!

Donizetti  debuttò  con opere  influenzate dallo stile rossiniano imperante, ma  già   personalizzate con l’attenzione alla psicologia dei personaggi (come risalta nell’Elisir d’amore) e il maggiore impegno drammatico. Durante il  soggiorno a Napoli ( dal 1822 al 1838 fu direttore artistico del San Carlo) scoprì  l’ operistica napoletana, che rinnovò in senso romantico/drammatico  e  lirico, staccandosi definitivamente da Rossini.  Le opere della maturità,  tra cui Lucia di Lammermoor,  Don Pasquale,  sono  espressioni di equilibrata perfezione, depurate  da  provvisorietà  ed incertezze ancora presenti nella frettolosa produzione precedente, alla quale era costretto dalle  precarie condizioni della vita di spettacolo del suo tempo (nonché da quelle economiche della sua vita). Elisa Prato