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La Bohème, uno spettacolo per ogni generazione

La Bohème, uno spettacolo per ogni generazione
La Bohème (OCF)

Grandi applausi e teatro affollatissimo per la prima de La Bohème, una ripresa dello spettacolo del 2019 per la regia di Augusto Fornari e la scenografia di Francesco Musante.

In una gelida soffitta della  Parigi del 1930 vivono in povertà il poeta Rodolfo, il pittore Marcello, il filosofo Colline, il musicista Schaunard.

Mentre gli amici vanno al Quartiere latino per festeggiare un’entrata in denaro di uno di loro, Rodolfo rimane  in casa a scrivere; bussa alla porta una vicina, la ricamatrice Mimì, per riaccendere il lume.

I due giovani si presentano, raccontandosi a vicenda mediante due famosissime arie, belle tanto per la musicalità quanto per l’intensità poetica che traspare dal testo (“ Mi chiamano Mimì”, “Che gelida manina” ). Nasce un sentimento destinato a non proseguire.

Il secondo personaggio femminile è Musetta, ex ragazza di Marcello, ora provvista di un nuovo ricco amante.

Due donne povere e dai temperamenti opposti, caratterizzate in qualche modo da un simbolo, una manina gelida per l’una, un piede dolorante (simulato per non pagare il conto al caffè Momus) per l’altra.

L’opera di Puccini è uno specchio di quella stessa gioventù vissuta dall’Autore, gioventù che vorrebbe emergere, senza troppa voglia di lavorare e molta di divertirsi, nell’età delle piene forze fisiche e dell’amore, ma non sempre l’anticamera della realizzazione: sogni, chimere, certo, ma anche una certa consapevolezza, intravista nelle sfumature del testo, che i sogni possono anche non avverarsi, per cui ci si gode il presente per quanto squattrinato possa essere.

Mimì tornerà nella stessa soffitta, tra l’amore di Rodolfo e l’affetto degli amici, quando purtroppo, fiore senza più profumo, come  i suoi ricami, la tisi non le lascerà più tempo per vivere.

La soffitta, con un male prettamente ottocentesco, apre e chiude il dramma esistenziale di Mimì, un luogo sia reale che simbolico in cui si svolge una vana speranza d’amore.

La morte di Mimì sembra porre la parola fine al vivere dei giovani senza  un progetto di vita, allo stadio “estetico”  per dirla con i filosofi, che prima o poi presenta il conto.E alla giovinezza, a quel momento che può essere splendido quanto inconsistente, il pensiero dello spettatore istintivamente ritorna. Una rappresentazione in quattro “quadri”, come li definì lo stesso autore, che si completano ma si possono leggere anche autonomamente.

Il toccante quarto quadro celebra sentimenti di comune umanità: mentre gli amici improvvisano un goliardico ballo tra di loro arriva Musetta, sorreggendo Mimì gravemente ammalata.

Si scatena tra gli amici una gara di solidarietà, chi vende gli orecchini, chi il cappotto per comprare medicine. E come spesso succede quando la morte incombe, anche Rodolfo e Mimì rievocano il passato ricordando i loro primi momenti; poi la fanciulla sembra addormentata ma in realtà tutti si accorgono che è morta e non osano dirlo a Rodolfo che lo scoprirà drammaticamente da solo.

E sotto la soffitta passa un ultimo simbolo: un carro di bambini che salutano la giovinezza spensierata che se ne va.

Con quest’opera Puccini si distacca definitivamente dal teatro lirico romantico: l’amore è rappresentato come un valore in sé, mentre i personaggi non sono più titanici ma quotidiani; egli racconta la vita com’é, non ha bisogno del dramma per bucare la custodia dell’anima dello spettatore.

Molto bella la scenografia di Francesco Musante, coloratissima, giocosa, ricca di indovinate animazioni: il primo cambio di scena girevole, la soffitta che gira come un carillon per mostrare la festosa atmosfera del Caffè Momus, costituisce uno spettacolo nello spettacolo che merita un lungo applauso a scena aperta del pubblico.

Sul podio il maestro  Francesco Ivan Ciampa ha offerto bei momenti lirici e scorrevoli, con attenzione al palcoscenico e in linea con lo stile pucciniano, che nell’opera dona tutta la sua ricchezza artistica ed intimista: la folla di avventori del Caffè Momus rappresenta un esempio straordinario di caos musicale organizzato, caratteristico di Puccini. L’orchestra ha reso immediatamente percepibili gli aspetti sensoriali dello svolgimento, foglio strappato, brusca alzata dalla sedia, il fuoco scoppiettante.

Indovinato ed efficiente il  cast, anche nella fisicità dei personaggi:  Anastasia Bartoli si è rivelata una Mimì convincente, soprattutto a voce calda negli ultimi due quadri, Galeano Salas un Rodolfo del tutto all’altezza e così Benedetta Torre (Musetta), Alessio Arduini (Marcello), Gabriele Sagona (Colline), Pablo Ruiz (Schaunard).

Da applausi anche il coro degli  adulti e quello di voci bianche, perfettamente inseriti nell’azione. Bellissime le esibizioni  dei numerosi bimbi intorno al Caffè Momus e tra la neve.

La recensione si riferisce alla prima del 12 aprile. La Bohème resta in scena fino a domenica 21 aprile.

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La nascita de  La Bohème

Giacomo Puccini (Lucca 1858) era figlio e nipote di musicisti, una istituzione a Lucca.

Ma la morte del padre quando il musicista aveva sei anni e le conseguenti ristrettezze (di una famiglia con sei figli ed uno in arrivo da allevare) costrinsero il Nostro ad arrangiarsi diventando un buon organista sotto la guida del maestro Angeloni, con il quale condivideva la passione per la caccia.

A diciannove anni andò a piedi da Lucca a Pisa  per ascoltare l’Aida di Verdi: ne rimase sbalordito e decise di scrivere opere. Sollecitata dalla madre, la regina Margherita offrì al giovane milleduecento lire per vivere a Milano e il ventiduenne Giacomo partì per frequentare il Conservatorio milanese.

Nel 1893, dopo aver lungamente atteso il successo con le prime opere, riuscì, con i proventi della Manon Lescaut, ad acquistare la residenza sul lago di Massaciuccoli a Torre del Lago.

Allora il paese era composto di case rustiche e di capanne di pescatori, ma era anche una sosta per alcuni pittori in cerca di ispirazione che diedero vita al Club della Bohème. La brigata aveva uno statuto rigido in cui si poteva leggere che “la saggezza non è ammessa neppure in via eccezionale” e che “ammusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere non sono ammessi o vengono caccaiti a furor di soci”.

Puccini respirò a pieni polmoni quest’aria di scapigliatura e nella sua testa si accese la luce di Rodolfo e Mimì. Con i due librettisti  Giacosa ed Illica il compositore fu incontentabile, ma la prima, al teatro Regio di Torino il 1 febbraio 1896, diretta da Arturo Toscanini, fu un successo di pubblico ma non di critica.  Toscanini fu buon profeta nel predire: “Quest’opera ti renderà celebre in tutto il mondo”.

Infatti l’opera ebbe successo a Roma e trionfò a Palermo, a tal punto che il maestro Mugnone fu costretto a riattaccare per rispondere alle pressanti richieste di bis.

Mimì si era tolta la parrucca, Rodolfo si era levato i baffi: ma si riattaccò lo stesso e fu ripetuto tutto il finale! Da allora il trionfo de La  Bohème dura interrotto in tutto il mondo.

ELISA PRATO