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I 5 referendum sulla giustizia spiegati bene da Becchi: necessario andare a votare

Prof. genovese Paolo Becchi su Byoblu (foto di repertorio)

“Di questo referendum non ne parla nessuno. Tv e giornaloni del ‘mainstream’ in silenzio, politici pure. Tutti o quasi hanno paura di intestarsi la battaglia referendaria solo perché potrebbero perderla a causa del mancato raggiungimento del quorum”.

Lo hanno dichiarato l’avvocato ed editorialista Giuseppe Palma e il prof. Paolo Becchi, ordinario di Filosofia del diritto alla Facoltà di Giurisprudenza di Genova.

Domenica 12 giugno, dalle ore 7 alle ore 23, gli italiani sono chiamati a votare per i 5 referendum abrogativi in materia di giustizia.

Referendum abrogativo e quorum.

“Il referendum abrogativo è il principale istituto di democrazia diretta previsto dall’ordinamento costituzionale. Esso è regolato dall’art. 75 della Costituzione e prevede l’abrogazione, totale o parziale, delle disposizioni di una legge o di un atto avente forza di legge oggetto di quesito, che viene sottoposto all’elettore con formula abrogativa.

È indetto se ne fanno richiesta cinquecentomila elettori o almeno cinque consigli regionali.

Non tutte le materie possono essere oggetto di referendum abrogativo: sono infatti escluse le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali.

Come previsto dal quarto comma dell’art. 75, ‘la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi’.

Pertanto è necessario che si rechi alle urne almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto.

Il 12 giugno i 5 referendum sulla giustizia si terranno in concomitanza col primo turno delle elezioni amministrative in quasi mille Comuni, tra cui parecchi capoluoghi di provincia”.

Ecco i 5 quesiti referendari spiegati bene dall’avv. Palma e dal prof. Becchi.

Abrogazione della Legge Severino – Scheda di colore rosso

“Sulla spinta di un’antipolitica dilagante prima delle elezioni politiche del 2013, il Governo Monti adottò – su delega del Parlamento – il D.Lgs. n. 235/2012 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo).

Il decreto legislativo prevede la incandidabilità alla Camera e al Senato, oltre che al Parlamento europeo, di tutti i soggetti condannati con sentenza passata in giudicato ad una pena superiore a due anni di reclusione per delitti non colposi, con l’automatica interdizione dai pubblici uffici (quindi anche dal ricoprire incarichi di Governo) per un periodo di sei anni, compresa l’esclusione dal Parlamento – se la sentenza passa in giudicato dopo l’elezione – su decisione della Camera di appartenenza del condannato.

La Corte costituzionale – con sentenza n. 35/2021 – ha inoltre stabilito che sia conforme alla Costituzione la sospensione automatica della carica di parlamentare (sulla quale deve comunque decidere la Camera di appartenenza), di membro del Governo, di presidente di regione, assessore regionale e sindaco, anche quando la condanna non è definitiva ma solo per reati di particolare gravità.

Sospendere addirittura il sindaco, senza neppure che la sentenza passi in giudicato ma solo dopo l’emanazione della sentenza di primo grado, dà il segno a cui è arrivato il giustizialismo nel nostro Paese.

Dopo l’abrogazione dell’immunità parlamentare avvenuta nell’ottobre 1993 (per cui da allora le Procure possono indagare i parlamentari senza l’autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza), quello della Legge Severino è lo strumento più potente che la politica abbia consegnato alla magistratura per farsi incastrare.

Il quesito mira, pertanto, ad abrogare la Legge Severino al fine di scongiurare i ‘processi politici’, in modo tale da evitare che siano i giudici a decidere – al posto del popolo – chi può essere eletto e chi no”.

Limiti agli abusi della custodia cautelare – Scheda di colore arancione

“Sin dai tempi di Tangentopoli (ma anche prima), della carcerazione preventiva si è continuato a fare un uso sconsiderato, il più delle volte nei confronti di persone sottoposte ad indagine che – dopo i tre gradi di giudizio – o risultano innocenti oppure condannati a pene che non prevedono l’effettiva reclusione.

Vediamo come funzionano oggi le misure cautelari.

Quando sussiste almeno una delle esigenze cautelari previste dal codice di procedura penale (pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato), e solo quando il pericolo è concreto ed attuale, il Pm può chiedere al Gip l’applicazione di una misura cautelare nei confronti della persona sottoposta ad indagini.

La difesa non può nulla, se non presentare (dopo che la misura è stata eseguita) istanza al tribunale del riesame oppure depositare allo stesso Gip istanze di revoca o di sostituzione della misura (in quest’ultimo caso solo se sussistono elementi nuovi ai sensi dell’art. 299 c.p.p.).

Il quesito referendario intende  abrogare l’art. 274, comma 1, lettera c) del codice di procedura penale (d.p.r. n. 447/1988), limitatamente alla parte in cui consente l’applicazione della misura cautelare per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni e, per la custodia cautelare in carcere, per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti.

In pratica, se i cittadini decidessero di abrogare la norma oggetto del quesito referendario, le misure cautelari (tra cui quella invasiva del carcere) sarebbero applicabili nei casi stabiliti dal primo periodo della lettera c) dell’art. 274, comma I c.p.p., vale a dire solo per ‘gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata’.

Dunque, non è vero che assassini, rapinatori o stupratori non finirebbero più in galera: per questi reati, e per quelli di mafia o di sovversione dell’ordine democratico, la custodia cautelare in carcere sarebbe ancora applicabile.

Il quesito mira a limitare in modo decisivo il ricorso alle misure cautelari, in primis la custodia cautelare in carcere che resterebbe in vigore solo per quei reati particolarmente gravi che giustificano un’attenzione alta da parte dello Stato.

L’argomento riporta alla mente il caso Enzo Tortora: il noto conduttore televisivo fu sottoposto a 271 giorni di custodia cautelare per poi risultare completamente estraneo ai fatti in grado di appello, dove fu assolto con formula piena.

Separazione delle carriere dei magistrati – Scheda di colore giallo

“Il quesito riguarda l’abrogazione delle norme di legge vigenti che consentono il passaggio dei giudici dalla funzione requirente a quella giudicante, e viceversa. La funzione requirente è svolta dal pubblico ministero che fa le indagini, cioè dalla Procura che sostiene l’accusa, quella giudicante è svolta dal giudice di tribunale, di Corte d’appello o di Cassazione che giudica l’imputato.

Il testo del quesito riguarda l’abrogazione di alcune disposizioni di legge a partire dal Regio decreto n. 12/1941 (quello sull’ordinamento giudiziario), fino alla nuova disciplina dell’accesso in magistratura (D.Lgs. n. 160/2006) e gli interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario (d.l. n. 193/2009 convertito con modificazioni nella Legge n. 24/2010).

Sino alla riforma del codice di procedura penale (d.p.r. n. 447/1988), pubblico ministero e giudice erano seduti in aula sullo stesso scranno, in un sistema inquisitorio in cui l’inquirente era una sorta di para-giudice che si poneva al di sopra della difesa.

Le cose cambiano con la riforma del codice di procedura alla fine degli Anni Ottanta e con la riforma dell’art. 111 della Costituzione nel 1999, cioè con la trasformazione del processo penale da inquisitorio ad accusatorio (secondo cui la prova si forma nel dibattimento in condizioni di parità tra accusa e difesa), ma l’ordinamento giudiziario è rimasto ancora quello degli Anni Quaranta, con l’intercambiabilità delle funzioni giudiziarie.

A oggi l’accesso in magistratura consente al vincitore del concorso di optare per la funzione prescelta e cambiarla fino a quattro volte nel corso dell’intera carriera, con un intervallo di almeno cinque anni da un cambio all’altro.

Può un ex pubblico ministero essere davvero equidistante quando passa dalla funzione requirente a quella giudicante? Crediamo proprio di no, visto che il modus operandi adottato nelle due funzioni è completamente diverso (uno è abituato ad accusare, l’altro a giudicare con terzietà). L’abrogazione proposta dal quesito aprirebbe pertanto la strada alla netta separazione delle carriere dei magistrati.

Nel caso in cui al referendum vincesse il sì all’abrogazione, una volta intrapresa una delle due carriere – requirente o giudicante – il magistrato non potrebbe più optare per l’altra. Ciò garantirebbe la piena realizzazione del principio del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione, secondo cui ogni processo si deve svolgere davanti a giudice terzo e imparziale”.

Equa valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari distrettuali – Scheda di colore grigio

“Presso ciascun distretto di Corte d’appello sono istituiti i consigli giudiziari distrettuali, detti anche mini-Csm. Sono composti per lo più da magistrati, ma anche da professori universitari in materie giuridiche e avvocati.

Si tratta dunque di un organo che rispecchia la composizione ‘mista’ del Csm, così da garantire al suo interno la rappresentanza di tutti gli attori della giustizia. Tra le funzioni dei consigli giudiziari c’è anche quella della valutazione sulla professionalità dei magistrati, dal cui voto sono però esclusi professori e avvocati, che si limitano al semplice parere non vincolante.

Le norme interessate dal quesito abrogativo sono alcune di quelle contenute nella legge che istituiva il Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, vale a dire il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150.

In caso di abrogazione delle norme oggetto del quesito, avvocati e professori universitari facenti parte dei Csm distrettuali potranno infatti esprimere, al pari degli altri componenti, la loro valutazione in ordine alla professionalità dei magistrati che prestano servizio nel distretto.

Come dice una vecchia locuzione latina, ‘canis canem non est’ (cane non mangia cane), quindi l’obiettivo del referendum è evidente: smantellare il corporativismo giudiziario ed evitare l’autoreferenzialità della magistratura, in modo tale che non siano solo i giudici a valutare i giudici, ma anche altri importanti protagonisti del settore come appunto professori e soprattutto avvocati”.

Sistema di elezione e riforma del Csm – Scheda di colore verde.

“Il primo quesito riguarda il sistema d’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno dei magistrati, presieduto dal Presidente della Repubblica. Ai sensi dell’art. 104 della Costituzione, i componenti del Csm ‘sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio’.

I primi sono detti membri togati, i secondi laici. I membri laici non hanno bisogno di candidarsi in liste, sono infatti eletti autonomamente dal Parlamento tenuto conto dei soli requisiti indicati dalla Costituzione: vanno scelti tra i professori universitari ordinari in materie giuridiche e gli avvocati con almeno quindici anni di esercizio.

Per i membri togati esiste invece una procedura particolare, regolata dall’art. 25 della Legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura).

Il terzo comma dell’art. 25, oggetto di quesito abrogativo, prevede che i magistrati che intendono candidarsi al Csm presentino la loro candidatura in ‘una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta’.

Insomma, sono possibili vere e proprie fazioni politiche all’interno della magistratura. È da qui che nasce il ‘sistema delle correnti’ che dal 1992 in avanti, sull’onda delle inchieste di Tangentopoli, è servito alla magistratura per intervenire – direttamente o indirettamente – nel processo democratico del Paese, condizionando talvolta le sorti di Parlamento e Governo.

Se il quesito abrogativo sarà approvato, i giudici che intendono candidarsi al Csm potranno presentare liberamente la propria candidatura senza aderire a liste o correnti. In tal modo sarebbe più difficile per una parte della magistratura costruire nuove forme di correntismo”.