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Beppe Gambetta entusiasma al Teatro della Corte

La scorsa settimana chi scrive ha avuto la fortuna di poter assistere al bellissimo concerto di Beppe Gambetta al Teatro della Corte e con gioioso stupore ho visto crollare due antipatici luoghi comuni: quello antico del “nemo propheta in patria” e quello fresco fresco del “la pandemia non ci renderà affatto migliori”.

Per quanto riguarda il primo, ad onore del vero, sono ormai vent’anni che l’arte di Beppe Gambetta è apprezzata da tanti suoi conterranei, perché è dal 2000 che il virtuoso chitarrista genovese, con la preziosissima collaborazione della sua compagna Federica Calvino Prima, organizza il suo “Acoustic night” e il teatro è sempre stato pieno come un uovo. Quest’anno, poi, con la fame di vita e di musica che c’è, era quanto mai prevedibile che ci fosse il tutto esaurito, anche perché il numero dei posti era dimezzato.
Ma non è stata la quantità di persone accorse all’evento, piuttosto il loro comportamento, a sfatare il secondo luogo comune: un’atmosfera così magica non ricordo di averla mai percepita a un concerto, e sì che ne ho vissuti, sia da spettatore che da musicista. Davvero, mi sento di poter dire che, almeno per
quanto riguarda la fruizione degli spettacoli, la pandemia ci ha migliorati. Sono stati tutti in religioso silenzio e in totale partecipazione (pochissimi i telefonini accesi, peraltro subito fatti spegnere dalle solerti maschere) e ad ogni applauso sembrava che fossimo molti di più, tanta era la comunione d’anime.

Nella mia vita mi sono sentito dire spesso che sono fortunato e a questa storia non ho mai voluto credere tanto, forse per scaramanzia. Ma con i concerti memorabili sono fortunato. Proprio nel 2000, all’ultimo momento mi telefonò il compianto Emanuele Paganini per dirmi che aveva due biglietti per Faber amico fragile e se avevo piacere di andare con lui. Ed ora, a distanza di vent’anni, è stato il mio caro amico Sergio Bianco, immenso artista della grafica, nonché ideatore delle scenografie del concerto di Beppe Gambetta, a telefonarmi dicendo che aveva due biglietti per il suo concerto e se avevo piacere ad andarci con lui. Ed io che, mi vergogno a dirlo, non avevo ancora assistito a nessuno dei 19 concerti precedenti, sono ancora incredulo di tanta fortuna: si vede che era scritto che assistessi al ventesimo che però recava il numero 21 per via della maledetta epidemia.

Si sapeva che quest’anno Beppe non poteva invitare artisti stranieri, ma non mi aspettavo che mettese su una band che è un autentico pezzo di storia della musica italiana. Paolo Giovenchi, musicista eclettico e talentuoso, sia come chitarrista che come bassista, ma soprattutto storico collaboratore e arrangiatore di Francesco De Gregori. Ellade Bandini, batterista di Guccini, Conte, Mina, Ron, Bennato, Branduardi, solo per citatne alcuni. Mark Harris, pianista statunitense, trapiantato ormai in Italia dal lontano 1967, anche lui compositore e arrangiatore, che suonava nei Napoli Centrale, collaboratore di Gaber, Finardi, Iannacci, Ramazzotti, Zero… La magia si è creata già quando si è aperto il sipario ed è comparso sullo sfondo il bellissimo quadro di scena creato da Sergio Bianco, illuminato ad arte dal tecnico delle luci Riccardi.
Ma anche i suoni sono stati curati con una dedizione religiosa dal mago Lallo Costa, il quale collabora da anni con Beppe Gambetta. Siamo stati tutti stregati già dal primo brano, “Fighting While We Can”, tratto dall’ultimo CD di Beppe, dal doppio titolo, in inglese e in genovese: “Where The Wind Blows – Dove tia o vento” (Borealis Records, 2020), una ballata dal sapore irlandese, di una poesia struggente, nella quale si è sentita tutta l’anima cosmopolita del genovese radicato nella sua terra ma girovago per troppo amore di conoscenza, che fa sue tutte le culture incontrate.

E poi è arrivata come una sferzata tonificante “Il bandito e il campione” di Francesco De Gregori, seguita dalla mitica “Vengo anch’io, no tu no” di Enzo Inannacci, dove Mark Harris, non senza commozione, ha evocato le indimenticabili urla dell’indimenticabile genio milanese. Quando sul palco salgono musicisti che hanno vissuto tutta l’epopea della grande musica d’autore, sai che non ascolterai soltanto note, ma storie che non potresti mai immaginare. Mark ha raccontato di quando fu chiamato per la prima volta a collaborare con De André, a Milano, in una sala di incisione della Ricordi. Essendo da poco arrivato in Italia, non sapeva ancora chi fosse Faber e non voleva nemmeno andare, ché era appena rientrato da una tournée. Fu la sua fidanzata a convincerlo e lui, dopo un lungo tragitto in tram, ché a quel tempo non aveva ancora imparato a guidare, Mark si ritrovò in sala, assieme a tutti gli altri musicisti, e c’era un ragazzo aitante e riccioluto, con una chitarra, che spiegava la canzone, e accanto a lui un uomo burbero che fumava una sigaretta dopo l’altra e non proferiva parola. Mark pensò che il primo fosse De André e l’altro il suo impresario e rimase basito quando, finito di incidere la base, vide quel che pensava essere l’impresario avvicinarsi al microfono e tirar fuori quella voce unica al mondo. E anch’io sono rimasto basito quando Mark ha confessato di essere l’autore della canzoncina pubblicitaria di “Fruttolo”, lo yogurt per bambini tanto reclamizzato negli anni 90. Così come non avrei mai immaginato che Ellade Bandini non è stato soltanto il batterista di “Io vagabondo”, ma anche della sigla di “Ufo robot” e di “Nano nano”.
Dopo queste deliziose storielle che sono scivolate via in modo piacevolissimo, il concerto è ripreso e Mark, rimasto solo sul palco, ci ha rapiti tutti con le atmosfere del suo magico pianoforte, un brano forse improvvisato, che a lasciarsi andare completamente, sembrava di entrare in un castello incantato.
Ma ci attendevano ancora tante altre emozioni… A metà concerto Beppe ha reso omaggio a Ezio Bosso, leggendo le sue toccanti parole dette quando fu intervistato da Philip Baglini Olland per Radio London One:

“Ricordati che quella che pensi sia l’ultima nota della tua frase è la prima nota dell’altro. L’ultima nota scritta, quando finiamo un concerto è la prima nota di chi esce là fuori. Noi non siamo lì solo per suonare bene, noi siamo lì per cambiare qualcosa in noi stessi. La musica è questo: Cambia la vita.”

L’applauso che è seguito era condito di lacrime e Beppe ha atteso pazientemente che si esaurisse la piena emozionale per poi leggere le altre belle e profonde parole a commento dell’amico Sergio Bianco e mi sembrava tutto così incredibile: “L’ultima delle sette note è il SI. Il SI è l’unica risposta che l’Universo conosce. La rotazione del Si genera un simbolo armonico che, nel contrasto imprescindibile tra positivo e negativo, tra pieno e vuoto, fa scaturire, come afferma il Maestro Bosso, la prima nota dell’altro”. Il concerto è andato avanti con Sunrise Melody / Wise Old Man / Forget About Me Not, poi Alice di De Gregori, con un arrangiamento country che mi ha fatto pensare a James Taylor. Ma il momento forse più commovente di tutti è arrivato con il brano di Beppe, “Lament”, dedicato a tutti coloro che sono stati portati via dal maledetto Covid 19. L’armonia che da accordi minori è passata ad accordi maggiori ha diffuso un senso di speranza che quasi si poteva toccare.
Quindi è seguita la stupenda “The whale has swallowed me” e dopo ancora il fantastico solo di batteria con cui Ellade Bandini ha voluto rievocare il rumore dei passi che udiva ogni volta che Faber arrivava sul palco… Beppe ha detto che per i musicisti che hanno collaborato tanti anni con De André, arrivando a mettere a punto una macchina musicale perfetta, è difficile adesso dover suonare la sua musica, per cui quando vengono invitati ad un tributo in suo onore declinano. Ma questa sera era speciale e un brano di De André non poteva mancare: “Ottocento”.

“Come faranno in quattro a fare le veci di un’orchestra intera?” ho pensato da uomo di poca fede. E sono stato subito rassicurato già dalle prime battute, davvero non mi aspettavo tanta pulizia di suono e tanta sobrietà nell’arrangiare.

Poi Beppe ha finalmente cantato nella sua lingua madre e ha raccontato della sua grande “Nonna Giò”, protagonista della canzone “Dove Tia O Vento”, cui sono seguite, nell’ordine: Bastava un fiore, Dolphin Dance, pirotecnico e coinvolgente blues suonato da Mark e Ellade; poi Old train e La Musica Nostra. – Standing ovation, non solo per la bravura dei musicisti, ma perché non ne potevamo più di stare seduti, per tutta la cattività passata e per quell’incredibile senso di liberazione e di vittoria che si era improvvisamente diffuso in tutto il teatro.

I bis dovevano essere tre, per un totale di venti brani in tutto, ma il tempo che restava era poco prima del coprifuoco e allora solo due bis, uno attaccato all’altro: Compagni di viaggio e Dio è morto

19 brani, un riferimento che non è stato proprio possibile evitare, perché non siamo ancora fuori del tutto da questa terribile minaccia, ma la musica può aiutarci, può infonderci coraggio. Alla fine, siamo usciti tutti in buon ordine, senza fretta, e siamo scivolati tutti nella notte con una speranza in più e tanta, tanta voglia di tornarci presto in quel luogo sacro, meraviglioso che è il teatro.

Grazie Beppe, per averci invitato a questa festa di umanità.

 

PIERO TROFA

(Musicista)