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Se mia madre mi facesse a pezzi nessuno mi verrebbe a cercare | Interviste

Marta Prunotto ed Elena Dragonetti, dopo la prima di “Se mia madre mi facesse a pezzi” - Foto Linda Kaiser

L’intervista alla regista, Elena Dragonetti e all’interprete del monologo, Marta Prunotto

Elena Dragonetti è attrice, autrice e regista. Diplomata alla Scuola di Recitazione dei Teatro Stabile di Genova, segue corsi di formazione allʼAccademia Teatrale di Varsavia e con attori della compagnia di Peter Brook. Convive e collabora per sei mesi con il Living Theatre, diretto da Judith Malina e H. Reznikov.

Lavora con diversi teatri e compagnie: Teatro Stabile di Genova, Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Firenze, Teatro Cargo, Compagnia ʻGrand Ballʼ di Parigi, Torino Spettacoli. Collabora con diversi registi e, dal 2000, con la compagnia del Teatro dell’Archivolto di Genova in spettacoli (soprattutto per bambini) con la regia di G. Gallione e G. Scaramuzzino.

Nel 2002 entra a far parte dellʼAssociazione Narramondo – Teatro civile di narrazione (“nel recupero del tragico ritroviamo la nostra poetica artistica e politica insieme: lo spazio della bellezza e il tempo della rivolta”) di cui è co-direttrice artistica e in questo ambito si cimenta in diversi ruoli.

Nel 2001 inizia la sua attività di insegnamento, curando e conducendo laboratori teatrali organizzati dal Teatro dellʼArchivolto, rivolti a ragazzi di varie età, e laboratori con utenti della Comunità di San Benedetto, sempre con la conseguente produzione di spettacoli.

Perché hai scelto Marta Prunotto tra tante concorrenti al ruolo di Aïcha? Cosa ti ha colpito di lei?

Marta mi ha colpito molto al provino. Aveva già un atteggiamento molto professionale. Non cercava di mostrarsi ed emergere sulle altre, ma era molto concentrata sul cercare di fare al meglio il lavoro che io proponevo e sulle indicazioni che davo per il personaggio e per la scena che stavamo lavorando.

Anche mentre lavoravano le altre, seguiva il loro lavoro senza perdere la concentrazione (dote preziosissima per questo lavoro e per lo stare in scena) e continuava ad appuntarsi tutto quello che suggerivo alle altre come indicazioni, per poi metterlo in pratica quando era il suo turno.

Aveva già un ottimo grado di concretezza e di verità nel suo modo di recitare, qualità che io apprezzo molto. Ed era in grado di capire quello che io chiedevo e di modificare, in base alle mie proposte, la sua interpretazione. Tutto questo non è affatto scontato in una ragazza che non ha ancora affrontato un percorso professionale.

Al momento del provino, Marta era lontana dalle caratteristiche che io desideravo e vedevo nel personaggio di Aïcha, ma ero sicura che ci fosse terreno e spazio per iniziare insieme un percorso di ricerca all’interno di quell’universo e di quell’immaginario. Sono felice di non essermi sbagliata.

Com’è stato lavorare con materiale ancora, in un certo senso, “grezzo” per portarlo in breve tempo a una forma attoriale così convincente?

Il tempo, effettivamente, non è stato molto, considerato che Marta era alla sua prima esperienza di carattere professionale: bisognava bruciare le tappe e questo di fatto è successo.

Mi piaceva l’idea di lavorare con un “materiale grezzo” su questo tipo di storia e su un personaggio così giovane. Volevo che avesse ancora vive e sulla pelle quelle caratteristiche così tipiche della fase adolescenziale.

Sono ormai molti anni che mi dedico al lavoro con gli adolescenti o post-adolescenti, e lo trovo estremamente stimolante e appassionante. Sono un materiale grezzo, ma nel momento più alto delle loro potenzialità, da un punto di vista emotivo e passionale: un carico di energie in piena spinta per esplodere. Credo non sia casuale che molte delle rivoluzioni o lotte partigiane si siano incarnate in ragazzi molto giovani, adolescenti o poco più che adolescenti.

È stato, ovviamente, un lavoro impegnativo, perché mirato non a ottenere da Marta la pura ripetizione meccanica delle mie indicazioni, ma a sviluppare in lei una consapevolezza teatrale e attoriale, una relazione con la storia e con i vissuti che la determinano, senza perdere la relazione con il proprio sentire.

Le due serate, infatti, sono state differenti nell’interpretazione e nell’attraversamento della storia, pur restando fedeli alla vicenda e al percorso di Aïcha ma, come è naturale e doveroso che sia, tutto ciò che si muoveva in Marta sul palco era vivo e in continua mutazione. Gran parte del lavoro di regia è stato un lavoro sull’attore, piuttosto che un lavoro sulla confezione.

Quali qualità deve avere, a tuo parere, una giovane attrice?

Credo innanzitutto serva desiderarlo molto, avere un motore di passione e di piacere così forte, da superare tutte le difficoltà che inevitabilmente si incontrano. La capacità di dedicarsi, di concentrare le proprie energie, pensieri, tempo.

La dote di riuscire a entrare in una relazione onesta con il proprio sentire. Il non spaventarsi di fronte agli ostacoli, ma utilizzarli come stimolo e trampolino per la ricerca di nuove soluzioni, invenzioni, creazioni, esplorazioni.

La capacità di restare saldi sul lavoro, senza che la messa in discussione di sé porti altrove, continuando la ricerca fino all’ultimo minuto dell’ultima replica.

Come ha reagito Marta alle diverse tappe di questo lavoro, sicuramente duro, di entrare in una parte, nella sola parte, di una pièce teatrale?

Ha avuto dei momenti di difficoltà, come è naturale e fisiologico, se non addirittura necessario, che sia. Ma questo non l’ha portata a tirarsi indietro: è rimasta sul lavoro con tutte le difficoltà e ha continuato a cercare e ciò le ha permesso di arrivare al risultato a cui è arrivata.

Non ha mostrato stanchezze, anche quando era evidente che ce ne fossero; ha imparato passo dopo passo a non risparmiarsi, dote che io apprezzo molto negli attori. Fino all’ultimo momento abbiamo cambiato, corretto, modificato, e questo non l’ha spaventata ma, al contrario, ha reso il suo modo di stare in scena vivo e presente.

Qual è stato il tuo rapporto, come regista, con questo testo così bello e attuale, immagino attraverso diverse fasi di conoscenza, interpretazione e resa finale?

Ho amato da subito questo testo e il personaggio di Aïcha, da quando Anna Giaufret mi ha proposto di leggerlo in francese, prima ancora che venisse tradotto in italiano.

È un testo molto denso, che ci chiede un confronto fuori dalle convenzioni e dagli schemi precostituiti, con tematiche di grosso impatto emotivo, oltre che sociale ed etico.

L’abuso ha segnato la vita di Aicha e la sua relazione con l’amore. Non c’è violenza e non c’è trauma nel suo vissuto, ma un senso di amore e di cura. Il vero trauma è lo strappo avvenuto quando il patrigno le è stato portato via.

Aïcha è lasciata sola nel suo tentativo di dare un senso a ciò che ha vissuto, di comprendere il significato di ciò che le è successo. E noi, con lei, siamo chiamati a porci delle domande che possano andare oltre la distinzione tra bene e male. Aïcha è una ferita aperta, e il fatto che lei non arrivi mai del tutto a comprendere la propria sofferenza mette noi nella condizione di guardarla al suo posto.

Quali progetti per il futuro, a seguito di questa prima nazionale?

Abbiamo l’intenzione e il desiderio di far girare lo spettacolo in Italia, essendo stata questa una Prima Nazionale e avendo avuto il supporto dell’Ambasciata del Canada a Roma e del Conseil des arts du Canada, oltre a quello dell’Università di Genova e del Dipartimento di Lingue e Culture Moderne.

Io, invece, prossimamente sarò di nuovo al lavoro in qualità di regista, con un’opera che vedrà ancora degli interpreti adolescenti, ma accanto a degli attori professionisti. Sarà liberamente ispirato all’Otello di Shakespeare e andrà in scena al Teatro Nazionale di Genova, Sala Mercato, a fine marzo 2019, con il titolo “Tuo per sempre”.

Marta Prunotto in “Se mia madre mi facesse a pezzi” – Foto Jevo

Marta Prunotto è una studentessa ventenne, iscritta presso l’Università di Genova al corso di laurea in Traduzione e interpretariato.

Appassionata di recitazione e canto sin da bambina, mentre frequentava gli ultimi anni del Liceo Scientifico ha iniziato a seguire i corsi di recitazione per ragazzi de La Quinta Praticabile, presso il Teatro Instabile di Genova.

A questi ha affiancato i corsi di recitazione (2016-17: in inglese, 2017-18: teatrale, 2018-19: cinematografica) presso il Centro di Formazione Artistica (CFA) di Luca Bizzarri a Genova. Da pochi mesi segue anche il corso avanzato di recitazione al Teatro della Tosse.

Cosa ti ha spinto a concorrere alla selezione di una giovanissima attrice per un monologo, una prova così impegnativa e difficile?

Mi ha attirato molto la piccola descrizione del testo e del personaggio che c’era nel bando, che mi ha fatto pensare che sarebbe stato un lavoro davvero affascinante; ho pensato che valesse la pena provare, anche solo per l’esperienza del laboratorio-provino, che infatti è stata molto interessante.

Poi, naturalmente, speravo di essere scelta e di poter avere l’opportunità di lavorare 1 a 1 attore-regista, raggiungendo una profondità alla quale, nei corsi di teatro, ovviamente, non si può mai arrivare, e con una regista come Elena Dragonetti.

Per quanto tempo e com’è stato lavorare con una regista interamente dedicata a te?

Abbiamo lavorato per un mese, praticamente ogni giorno, prima del debutto; è stato molto intenso, non avevo mai studiato in questo modo, e non avevo mai affrontato un monologo.

Elena è stata davvero fantastica, non avrei davvero potuto chiedere di meglio: mi ha accompagnata e spinta dove doveva spingermi, ma in modo delicato, equilibrato, mi ha fatto superare i momenti e le giornate più difficili, infondendomi sempre fiducia, era un ambiente molto sereno.

Oltre a essere una regista (e un’attrice!) veramente, veramente brava, che sa quello che fa e sa come guidare gli altri, Elena è anche una persona molto bella. Il tempo passato con lei è stato molto piacevole dal punto di vista artistico, tanto quanto da quello personale.

Cosa ti ha dato il personaggio che interpreti e cosa hai dato tu ad Aïcha?

Aïcha mi ha dato tanto, sono molto affezionata a lei, al suo modo di vedere il mondo, al suo modo di proteggersi nell’affrontarlo, facendo la dura, alle sue riflessioni e idee, al suo amare senza limiti.

Mi ha aperto un’altra finestra, un nuovo punto di vista sulle cose, dai colori un po’ diversi dai miei.

Le ho dato tutto quello che sono riuscita a darle, la mia energia, la mia pazzia, il mio amore e bisogno di amore, la mia paura, la mia rabbia. Il mio corpo me lo ha restituito un po’ pieno di lividi, ma va bene così.

Marta Prunotto in “Se mia madre mi facesse a pezzi” – Foto Jevo

Cosa hai provato a uscire sulla scena di un teatro completamente pieno, sold out, per tre spettacoli che si sono succeduti in soltanto una giornata e mezza?

Beh, è stato decisamente emozionante, sono davvero felice che così tante persone siano venute ad ascoltare questa storia e che abbiano apprezzato lo spettacolo.

Martedì e mercoledì scorsi [5 e 6 febbraio 2019] sono due giorni che credo non dimenticherò mai, sono stati un po’ come un sogno. Avere l’opportunità di calcare un palco su cui ho visto spettacoli e attori incredibili, nel corso degli ultimi anni, è stato davvero un po’ irreale, e con così tanto pubblico, poi. Un sogno davvero.

Anche la replica per i ragazzi dell’Istituto Superiore Firpo-Buonarroti, mercoledì mattina, è stata una bellissima esperienza: vederli attenti, sentire le loro domande e i loro commenti dopo lo spettacolo, come hanno percepito Aïcha e la sua storia, il suo mondo adolescenziale, come si sono ritrovati in certe cose, come sono stati toccati da altre… sono molto grata per l’opportunità che mi è stata data di vivere quest’esperienza.

Come hai fatto a reggere tanta tensione? Adesso, dopo questa magnifica prova, quali sono le tue sensazioni?

Cercavo di non pensarci troppo: quando iniziavo a riflettere sul numero di persone che ci sarebbe stato, sul fatto che mi avrebbero guardata tutto il tempo, su cosa avrebbero potuto pensare di quello che stavo facendo, eccetera, mi costringevo a pensare ad altro.

Mi concentravo sul lavoro che abbiamo fatto insieme, sul continuarlo, sull’arricchirlo con la presenza del pubblico.

Sono molto contenta di come sono andate queste repliche, spero di poter continuare a lavorare su questo monologo, che come ogni spettacolo si può arricchire, evolvere, replica dopo replica.

Sono davvero grata per la fiducia che Elena mi ha dato scegliendomi e per il lavoro e la crescita che mi ha permesso di fare, e per il sostegno del Teatro della Tosse, che ci ha fatto da “nido”.

Che cosa significa per te recitare? Progetti per il futuro?

Recitare è tantissime cose, difficile rispondere in modo lineare. È un mondo di possibilità, un dono magico che ci si fa e si può fare agli altri; una continua esplorazione, una ricerca di cose simili e totalmente diverse; un universo parallelo, in cui tutto quello che non sei puoi diventare; una divertente, entusiasmante, a volte lacerante scoperta dell’essere umano; un gioco serio e bellissimo.

Nel futuro vorrei studiare in un’accademia e diventare un’attrice professionista, e poi lavorare, avere la possibilità di raccontare storie che emozionino, facciano pensare, facciano ridere. Mi interessa moltissimo anche il mestiere del regista, per cui spero di riuscire ad avvicinarmi anche a quello.

Linda Kaiser