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Carlo Felice: Rigoletto, il “Triboulet”: il destino nel proprio nome

Carlo Felice: Rigoletto, il “Triboulet”: il destino nel proprio nome
Carlo Felice: Rigoletto, il “Triboulet”: il destino nel proprio nome

Concluso il ciclo delle opere giovanili (dieci in dieci anni!) cominciato con il Nabucco del 1842, Giuseppe Verdi incanala il proprio stile verso un sentire intimista, più sofferto ed aderente all’animo umano, confermandosi drammaturgo romantico con una sconcertante vocazione per raccontare passioni anche al limite dell’umano: nasce  la trilogia “Rigoletto “( 1851), “Il Trovatore” ( 1853), “La Traviata” (1853).

In molti scrittori italiani della fine del secolo XIX la fa da padrona l’influenza francese, nella prosa e nel teatro lirico ( e di ciò si lamentarono decine di autori e critici …). “Rigoletto” è tratto da un’opera di Victor Hugo, “Il re si diverte”, ma per evitare la censura austriaca, non più tenera di quella francese già intervenuta a bloccare il lavoro di Hugo,  l’ambientazione viene spostata a Mantova: il protagonista dell’opera non è più il sovrano ma il buffone di corte.

Carlo Felice: Rigoletto, il “Triboulet”: il destino nel proprio nome
Una scena del Rigoletto al Carlo Felice

L’ambientazione data dal Carlo Felice in questa riedizione è conforme, fin dall’apertura, ad una classicità sontuosa: le prime scene sono vivacizzate da uno splendido balletto di figure inquietanti, faunistiche o alate, che accentuano l’impressione reale di trovarsi in mezzo ad un “festino”   popolato di personaggi e di cortigiani ingannevoli e corruttibili, presagio di quel che di nefasto sta per succedere ( e l’orchestra avverte…). Verdi ricerca continuamente ed allinea l’identità della parola con il senso della musica, che sottolinea  efficacemente emozioni e tragedia.

Rigoletto, giullare del duca di Mantova, è un uomo illividito dalla propria deformità e dal vivere tra cortigiani oziosi che lo umiliano e non lo apprezzano.

L’uomo tiene nascosta e lontana da questo ambiente la sua splendida figlia, Gilda, frutto dell’amore di una donna che accettò comunque di volergli bene.

Il duca di Mantova è un inguaribile e cinico sottaniere, la cui vanità ed il disprezzo per le donne non si arrestano neppure davanti ai legami familiari.Uomo tutto sommato fortunato, perchè le sue sedotte sembrano non serbargli il rancore che merita.

Quando Rigoletto deride con cinismo il dolore di un padre, il conte di Monterone, a causa dell’ appartenenza della di lui figlia allo stuolo delle giovani sedotte dal duca, il conte gli lancia una articolata maledizione.Forse perchè ben consapevole della malvagità del proprio schernire, Rigoletto lascia che gli effetti psicologici della maledizione si insinuino nella propria mente e che vi si installino, fino a favorire un terribile epilogo tre volte duro: la morte della figlia, già violata dal conte, che muore per salvare il proprio seduttore. Verdi predilige la maledizione, tema assai romantico, che riempie di sacralità il quotidiano, motivo presente anche in altre opere (Ernani, La forza del destino,ecc).

La regia lascia intatti i tratti  ben conosciuti dell’Autore, la classicità, la complessità (ben rappresentata dal quartetto” Bella figlia dell’amore”, con quattro diverse psicologie ed emozioni riunite ), l’originalità: a questo proposito ricordiamo che la prima rappresentazione  al Teatro La Fenice del marzo 1851 venne così recensita dalla Gazzetta di Venezia: “Ieri fummo sopraffatti dalla novità: novità o piuttosto stranezza del soggetto; novità nella musica, nello stile… Quell’orchestra ti parla, ti piange, ti trasforma la passione…”.

Spettacolo giustamente mantenuto nell’ambito della tradizione, per ammissione e convinzione del regista Panerai, storico interprete del Rigoletto, di cui la regista Vivien Hewitt ha conservato i tratti. L’ambientazione è conforme alla classicità; belli i costumi della Schrecker, calibrati nei colori sull’indole dei personaggi.

Un classico del melodramma, talmente familiare che si rischia di non coglierne appieno l’audacia e la scabrosità: l’ansia della giusta punizione fa si che la larva

si trasformi in uomo, concedendosi alla fine ai sentimenti più umani ed al pianto disperato. L’opera si chiude con uno dei numerosi duetti fra padre e figlia: colpisce la rassegnazione di Gilda contrapposta alla graniticità di Rigoletto, chiuso nella sua ossessione per la maledizione.Applausi scroscianti  a scena aperta  ed alla fine per tutto l’indovinato cast, in cui spicca il perfetto accoppiamento di Rigoletto e della figlia Gilda, interpretata dalla voce splendida e abilmente modulata di Enkeleda Kamani.

Il protagonista è perfettamente sagomato, anche  nel fisico e nella psiche,  dala potente voce del baritono Amartuvshin Enkhbat, del quale è stata apprezzata anche la perfetta pronunzia dell’italiano. Giovanni Sala, il duca,altra voce limpida e duttile, riesce perfettamente bene nella propria parte e nell’interpretazione leggermente ironica de “La donna è mobile”, secondo copione proposta tre volte.

La recensione si riferisce alla prima del 13 maggio e la scrivente si augura un pienone anche per gli spettacoli del 20, 21, 22. Elisa Prato