Specie alla luce di una certa stampa che continua a violare il rispetto dovuto a chi è morto in uno stato di estrema sofferenza fisica e morale, è doveroso ricordare chi fosse davvero il prof. Pasquale Costanzo (Lino per gli amici).
Chi lo ha conosciuto e frequentato come me per oltre quaranta anni sa che il prof. Costanzo ha vissuto l’Università come una missione, nel senso più alto del termine: non un mestiere, ma una dedizione totale, una vocazione civile fondata sul rigore scientifico e sulla passione per la didattica.
E, in tutta coerenza, benché non gli mancassero di certo le occasioni essendo avvocato, rifiutò sempre incarichi, nonché cariche politiche ed in generale ruoli di potere.
Il prof. Costanzo fu dunque un Maestro nel senso più profondo del termine. Sapeva, infatti, riconoscere i talenti, li sosteneva, li accompagnava passo dopo passo nel loro percorso di crescita.
Dal dottorato in “Tecniche della legislazione”, da lui ideato e diretto, sono passati molti studiosi oggi in cattedra o in posizioni di rilievo nelle istituzioni.
Tutti, senza eccezione, gli riconoscono la lezione più grande: lo studio del diritto nel suo senso più puro, come strumento di libertà e giustizia.
Disponibile, attento, mai distante, il prof. Costanzo era sempre pronto a discutere un’idea, a proporre un progetto. Sapeva incoraggiare con discrezione, con quella gentilezza schiva che rivelava una invero naturale timidezza. Ma nonostante tutto è stato travolto da una vicenda ancora non conclusa.
Chiunque può ben capire che un docente ultrasettantenne non può partecipare a commissioni di concorso e gli è anche difficile influenzarne gli esiti.
Eppure, il prof. Costanzo è stato inquisito, diffamato, e addirittura, da incensurato, messo agli arresti domiciliari per settimane. Una vicenda incredibile.
Peraltro, resta a tutt’oggi difficile comprendere quale delle condizioni richieste per una misura cautelare (pericolo di fuga, inquinamento delle prove, o reiterazione del reato) potesse sussistere.
Perdipiù a distanza di quasi sei mesi dalla richiesta della misura cautelare.
E, se possibile, ancor più sconcertante è stata ed è l’accusa che gli è stata mossa di turbativa d’asta, fondata su un fraintendimento giuridico così macroscopico da apparire surreale: del resto, basta leggere un vocabolario per rendersi conto del fatto che un’asta “è una vendita di beni o servizi al miglior offerente” là dove le persone, com’è ovvio, non sono di certo né “beni” né tantomeno “servizi”.
Il “traffico di influenze”, poi, contestatogli dal pubblico ministero, non è stato nemmeno più preso in considerazione nel corso del processo. Un “reato impossibile”, direbbe il giurista.
Ma purtroppo, il danno ormai, in modo tanto tragico quanto irreversibile è compiuto.
Come avrebbe potuto resistere, a settant’anni, a tanto dolore e a tanta violenza contro, oltre che a Lui stesso, alla sua famiglia?
E come spiegare che ancora oggi, dopo la sua morte, vi sia chi continua a infangarne la memoria dipingendolo come “il principale indagato”.
Nonostante tutto, il prof. Costanzo sino all’ultimo ha continuato a lavorare.
Ha curato, con la stessa meticolosa, benché ora dolorosa, dedizione di sempre, la Rivista che ha diretto per trent’anni, fedele alla sua idea, può sembrare paradossale dirlo, ma è così, che una buona informazione sia condizione essenziale per la giustizia e per la tutela dello stato di diritto.
Inoltre, partecipava ancora a convegni e incontri di studio, invitato e rispettato. Fino al giorno prima del ricovero in ospedale, da cui non sarebbe più uscito. Peraltro, purtroppo, di quest’ultimo evento in Ateneo non si trova più memoria.
Ma perché? Perché tanto accanimento contro chi se n’è andato in silenzio, con la stessa discrezione con cui aveva vissuto, senza gridare l’ingiustizia di non aver potuto difendersi, travolto da un processo, anche mediatico a cui non ha potuto mai rispondere?
Eppure, ciò che ha lasciato non si può cancellare. Un segno indelebile nella cultura giuridica italiana, l’eredità morale di un uomo integro, di un innovatore, di un servitore dell’Università.
Dopo la sua morte dovrebbe prevalere almeno un minimo senso di pietas, di umanità. Quello che porta a lasciarlo, finalmente, riposare in pace. Prof. Paolo Becchi




















































