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Racconti I Gli inizi del fantastico duo Ludo & Pierin

Terzo appuntamento con il musicista Piero Trofa. Come già spiegato, non è una collaborazione musicale, ma da scrittore.  Trofa è molto conosciuto nell’ambiente dello spettacolo, ed è autore di colonne sonore per documentari e spot pubblicitari, ed insegna musica in scuole pubbliche e private. Alla musica si dedica completamente, sempre con grande attenzione agli aspetti formativi e alle connessioni che esistono tra musica e filosofia, la sua grande passione. Dal 1998 è presidente dell’Associazione Musicale Centro di Documentazione e Produzione Musicale “Ettore Panizza” con la quale organizza concerti ed eventi culturali in Italia e all’estero. In questo suo terzo racconto narra della nascita del duo musicale “Ludo & Pierin”…

              Franco Ricciardi


Ludo credeva molto nel successo del nostro fantastico duo e pretendeva che andassi tutti i giorni a casa sua a fare le prove, ma poi facevamo solo un frastuono confuso:

“Tanto quando faremo le serate metteremo le basi e basta, ché se mentre canto ci suoniamo sopra rischio solo di andare fuori” diceva tutte le volte, ridacchiando, alla fine di quel magnifico delirio.

“Non mi sembra corretto farsi dare dei soldi per stare tutto il tempo là, a far finta di suonare” obiettai.

Ludo inarcò il sopracciglio e ribatté: “Invece è correttissimo, per quello che ci danno. Tu sei un pivello, non sai che i cachet di oggi fanno ridere al confronto di quel che prendevo quando ero un pivello come te. Ero il cantante di un’orchestra spettacolo che faceva trecento servizi l’anno. E comunque io canto, faccio spettacolo lo stesso e se proprio vuoi, posso anche suonartene due”.

In effetti, un po’ sapeva suonare, ma metteva gli accordi in modo elementare, con tre dita, era in grado di eseguire una decina di pezzi in un modo personalissimo. Mi affascinava soprattutto come suonava “Desafinado”, perché saltava tutte le parti più difficili con un’astuzia davvero creativa: riconoscevi la canzone, anche se non era così. “Ma tanto la gente non ti sta mica a sentire”.

Le sue uscite sconcertanti mi divertivano, così, per quanto lo ritenessi uno spreco di tempo, quasi mi piaceva andare da lui tutte le mattine. Abitava peraltro in un bellissimo appartamento, nel quartiere di Albaro, e gli feci i complimenti e lui con un entusiasmo contenuto mi spiegò:

“Mica è casa mia. Ci sto in affitto e se pure avessi i soldi non me la comprerei certo, mi andrei a divertite. Tu non devi essere ricco, devi vivere come il ricco, ricordalo”.

E infatti sembrava ricco, sempre vestito come un figurino e con quell’espressione sorniona e gli occhiali a specchio, a volte avevo l’impressione di avere a che fare con un agente segreto abilmente camuffato da musico di serie C.

Tutte le mattine bussavo alla sua porta alle dieci, lui si era appena svegliato e veniva ad aprirmi con tutta calma, ancora mezzo nudo, mi invitava ad entrare con un cenno brusco, non proferiva una parola, si metteva davanti allo specchio e si analizzava il viso a lungo, meticolosamente, finché non puntava il dito su una guancia, o sulla fronte, e diceva con tono seccato:

“Belìn, ma questa prima non c’era”. Non ho mai capito a cosa alludesse, se alle rughe o a qualche porro, o verruche, o chissà che altra alterazione.

A quel tempo aveva quarantacinque anni ma ne dimostrava ben di più anche a causa della precoce calvizie, della quale però non si doleva troppo: “Io mica li ho persi, i capelli, ce li ho tutti in un cassetto”, così disse e sfoderò il suo solito sorriso a trentadue denti che per me era spavaldo ma anche malinconico.

Invece si lagnava di essere anziano: “È inutile, passati i trentacinque, ce l’hai in quel posto” sentenziava cinico e sospirava, finita l’ispezione mattutina davanti allo specchio.

Mi mostrò una foto di quando aveva vent’anni e rimasi senza parole: sembrava l’autoritratto di Dürer. Il mio stupore non gli sfuggì e disse con fierezza: “Hai visto quanti capelli avevo allora? Ero un ragazzo meraviglioso!”.

Ogni pomeriggio andava alla bocciofila di Via Montallegro, a giocare a scopone dalle due del pomeriggio alle sette di sera.

Gli chiesi come mai gli piacesse tanto e mi spiegò: “Perché là sto all’aria aperta e non spendo un cazzo”, e quando gli osservai che avrebbe potuto passare il tempo a fare dell’altro, tipo studiare musica, mi guardò ironico e replicò: “Ma tu sei uno studioso. Io invece sono ignorante e preferisco giocare a carte e alla petanca”.

Mi costrinse ad andare là a passare qualche pomeriggio, convinto che mi sarebbe piaciuto.

Era un posto molto bello e si stava bene all’ombra di un monumentale platano vecchio di almeno mezzo secolo che copriva ogni cosa come un gigantesco ombrello.

C’era un casottino di un piano, con dentro il biliardo, sedie e tavolini recuperati chissà dove e un vecchio frigorifero bombato che risaliva agli anni sessanta, che i soci periodicamente riempivano di bottiglie di vino e bibite portate da casa.

Chi si serviva doveva mettere i soldi in una cassettina, ma di sovente ciò non avveniva e scoppiavano liti furibonde dove i soci si rinfacciavano a vicenda di aver portato questo e quello e questo valeva più di quello.

Nel largo spiazzo antistante il casotto c’era il campo da bocce e quello più piccolo della petanca, e tavolini e sedie di resina dove i soci si sedevano a giocare a carte. E tutt’intorno c’erano cespugli e arbusti che contribuivano alla piacevole frescura.

L’intero complesso era di proprietà della Chiesa, lo aveva concesso in cambio di un affitto simbolico, grazie al fatto che uno dei soci aveva delle conoscenze in Curia.

I soci erano tutti molto vecchi, tra di loro c’era anche il padre di Ludo, tutti lo avevano visto crescere, per cui in mezzo a loro sembrava un ragazzino.

Oggi quei vecchi non ci sono più, anche la bocciofila non c’è più, la Curia li sfrattò non appena morì il socio con le conoscenze.

Il casotto adesso si intravede appena, è immerso in una foresta intricata e lussureggiante, cresciuta rapidamente per via dell’incuria, c’è da farsi largo col machete.

Tra la fitta vegetazione si vede appena una sedia di resina tutta corrosa ed è prova di come la natura possa metterci veramente poco a cancellare ogni traccia della nostra gloriosa civiltà.

Non avevo mai giocato a scopone e Ludo mi bocciò sin dalla prima partita: “Sei sempre disattento, non hai capito un cazzo di come si gioca, mi fai venire il nervoso!”,  mi spedì da Mario, un vecchietto che giocava a petanca da solo perché troppo scarso, il quale mi batté sempre ad ogni fine partita esclamava: “Perché Sanremo è Sanremo!”.

Dissi a Ludo che non ci sarei andato più e che secondo me lui andava là perché in mezzo a tutti quei vecchi si sentiva meno anziano e lui disse: “Può darsi”.

Ammise anche di essersi scelto una moglie molto più giovane di lui sempre per quello stesso motivo: “La vita è già difficile, se poi tutte le mattine ti svegli vicino a un sarcofago lo è di più”.

Io gli dissi che secondo me nessuna donna ti sembrerà mai un sarcofago se l’ami e lui mi disse:

“E sei un uomo che non ce n’è”, ma era sarcastico.

Sua moglie era davvero una bella ragazza bionda, usciva di casa alla mattina molto presto e vi faceva ritorno alle otto di sera, appena in tempo per preparare la cena; mandava avanti un negozio di articoli da ballo, ma doveva anche fare tutto il resto, compreso portare e andare a prendere all’asilo Edo, il loro figlio di cinque anni, lo teneva in negozio fino all’ora di chiusura e lui giocava in mezzo a quel bazar.

Era furbo e divertente, molto somigliante al padre: “È l’unico suo neo” diceva la sua giovane madre. Dopo una settimana passata a far prove di mattina e a giocare a petanca con Mario al pomeriggio alla bocciofila, domandai a Ludo con una certa apprensione: “Quando credi che debutterà il nostro magico duo?”.

Lui rispose che sarebbe successo presto, che stava ragionando sulla situazione e mi consigliò di stare tranquillo e di pensare ad altro.

Ed io subito ebbi qualcosa di straordinario cui pensare: la nascita di mia figlia!

I primi giorni li trascorsi fuori di me, in un delirio di emozioni.

Mi stupii soprattutto del fatto che anche in una situazione così precaria, con i risparmi che diminuivano di giorno in giorno, ché c’era sempre qualcosa da pagare, di colpo mi sentivo ottimista e forte come un leone. Ero anche orgoglioso e soprattutto felice!

Era sempre festa, appena aprivo gli occhi e sentivo quei vagiti mi si apriva il cuore e scattavo come una molla e correvo dalla piccolina e lei sorrideva e non sapevo più dov’ero.

Dopo tanta tristezza per la morte di mio padre, era nata una vita e mi sentivo il rifondatore della famiglia.

Anche mia madre e gli altri parenti erano felici, ma anche più in ansia di prima: “Come farai?”, mi ripetevano ogni giorno guardandomi come chi vede all’orizzonte funesti presagi.

Anche il mio amico manager era in pensiero, venne a trovarmi un pomeriggio e nel mentre eravamo seduti in giardino, dopo avere fissato a lungo e in silenzio la carrozzina in cui la piccolina dormiva placidamente, all’improvviso si voltò verso di me e proruppe: “Ma tu… tu… sei padre!”.

Io sorrisi di soddisfazione ed esclamai: “Sì, ed è bellissimo!”.

Lui era sconvolto e pensai che si ritenesse assurdamente colpevole di avermi incoraggiato a cacciarmi in quel pasticcio.

Poi dopo un anno venni a sapere che anche lui era diventato padre e capii che i fatti che più ci sconvolgono sono quelli che poi accadranno anche a noi.

Ad ogni modo, niente e nessuno poteva smontare il mio ottimismo.

Mi dissi: “Se la natura mi ha reso padre, sicuramente provvederà acciocché io possa mantenere la mia prole”.

E la natura in quel momento mi sembrava impersonata da Ludo, il quale mi lasciò festeggiare solo per tre giorni, poi mi telefonò per richiamarmi all’ordine: “Me lo potevi dire subito che sei ricco di famiglia, ti lasciavo perdere”, disse con la solita ironia tagliente.

Gli ribattei che non lo ero affatto. “Allora sei semplicemente una belina, scegli tu. Sveglia! Che adesso, oltre all’affitto e alle rate della macchina, hai pure la figlia da mantenere. Domani vieni davanti alla bocciofila alle otto in punto, che passiamo all’azione!”.

Esultai. La Natura aveva fatto il suo corso!

La mattina dopo, mi presentai alle otto in punto al luogo convenuto, convinto che andassimo a fare un sopralluogo in un nuovo locale. Invece partimmo a bordo dell’Alfa 33 familiare di Ludo per andare a Roreto di Cherasco, in provincia di Cuneo, dove c’era il famoso Magazzino Musicale Merula, il gran santuario degli strumenti musicali di cui avevo solo sentito parlare ma non ero mai stato.

“È il momento di investire, Pierin!”, disse Ludo mentre guidava a tutta velocità sulla pericolosa autostrada Savona-Torino.

“Ma se non abbiamo una lira!” gli gridai, tenendo sempre entrambi i piedi schiacciati sul tappetino.

“Ma è perciò che andiamo da Merula. È l’unico commerciante onesto che io conosca, mi devi credere, ché sono stato commerciante anch’io. Da lui vanno a comprare da tutte le parti d’Italia e pure dall’estero, soprattutto francesi, che stanno a un tiro di schioppo. La sua formula è troppo conveniente: ti dà gli strumenti in affitto a riscatto con una rata pari al 4% del valore della merce; è vero che il 25% lo perdi nel noleggio, ma gli strumenti, nuovi di pacca, sono tutti scontati dal prezzo di listino fino al 30%, ma anche oltre! E poi capita a volte che fai l’affarone, trovi l’ultima chitarra di un lotto di trenta, perché lui mica ne compra una sola per volta, come i nostri oculati bottegai di Genova, e te la porti via per un pezzo di pane. È un genio, ti dico! Significa che 5 milioni di roba, credo che più o meno tanto spenderemo, ci costeranno 200.000 lire al mese per tre anni e poi diventa tutto nostro. Un centone a testa, che vuoi che sia, per tutta la merce che ci porteremo via e che useremo subito e ci faremo il grano!”.

Sì, ma quando avremo cominciato ad usare quegli strumenti?

A parte il fatto che mi vedevo già sfracellato orrendamente e incastrato fra le lamiere contorte dell’Alfa, e speravo solo che succedesse subito e di perdere conoscenza; ma se pure fossimo arrivati sani e salvi a casa, come avrei fatto a pagare quelle rate?

Gli comunicai le mie perplessità, ma non volle nemmeno discutere: “Non pensare alle rate, ti dico che faremo soldi a palate. Devi dar retta allo zio, pulcino: l’immagine è troppo importante, se ci presentiamo come due pezzenti nessuno ci farà mai lavorare”.

“Ma noi non siamo due pezzenti” obiettai, e lui replicò ridendo: “Sì, ma che resti fra noi”.

Mi raccontò il suo passato, credo per vantarsi più che per rincuorarmi.

Aveva cominciato da ragazzo a vendere porta a porta ogni genere di prodotti, specialmente aspirapolveri ed enciclopedie, finché era stato assunto da una grossa multinazionale che lo aveva mandato in giro per i supermercati di tutta Italia:

“Che tempi! Un milione e mezzo come mensile fisso e tre milioni e mezzo di spese, uno sproposito, alla fine del mese mi dovevo inventare l’impossibile per spenderli tutti, perché mica li volevo lasciare a quegli squali. Mi avevano dato anche la BMW, ma era una tattica, quelli non ti regalavano niente: finché rimanevamo con loro, oltre a farci un culo come una corba, avevamo l’illusione di fare la bella vita, dormivamo nei migliori alberghi, mangiavamo nei migliori ristoranti, ma non potevamo mai venire ricchi. Infatti, dopo averci spremuto come limoni per sette anni, ci hanno dato un calcio in culo e una buona uscita ridicola e hanno preso una schiera di ragazzi a molto meno, ché quelli non vedevano l’ora di vedersi in tasca due palanche. Con i quattro soldi che mi rimasero, aprii un negozio di articoli sportivi a Noli, mi piaceva il posto, ma non ci fu verso di inserirsi, figurati che gli altri commercianti mi chiamavano “U Zena”. Allora mi sono messo nel ramo immobiliare e anche là ne ho fatti di bei colpi. Poi, però, una mattina mi sono detto: ma perché devo farmi tutto questo mazzo a girare case tutto il giorno, che non ne ho voglia? Perché non ho continuato a suonare come avevo cominciato saggiamente a fare, è molto meno faticoso e molto più divertente…”.

Anche se era un affabulatore affascinante, c’era in lui, per meglio dire, tutt’intorno a lui, come un’aura di guai.

Ma quando entrai nel Grande Magazzino Merula, fu un’emozione fortissima, mi trovai a portata di mano tutti i migliori strumenti che finora avevo visto soltanto in fotografia o alla televisione e dimenticai ogni angustia. Mi sentivo come un bambino al luna park, non sapevo cosa guardare prima. “È il paradiso del musico. Qua verremo dopo morti, se ce lo saremo meritato. Ma mi sa che già siamo morti” disse Ludo con una certa enfasi teatrale che mi colpì.

C’era una folla di gente, di tutte le età, guardavano, toccavano, molti erano intenti a provare chitarre, tastiere, sassofoni, come un’orchestra che si intonava prima di un concerto.

Avevano tutti sguardi sognanti. Un commesso stava mostrando ad un prete un organo liturgico che con l’ausilio del floppy disk suonava da solo la Toccata e fuga di Bach e il prete esclamò: “Ah, ma questa è opera del demonio!”.

Ero davvero disorientato.

“Non avevi mai visto una roba simile, eh pulcino! Vedi, che se vieni con lo zio Ludo ne vedi delle belle?!”.

Sul fatto che ne avrei viste delle belle ormai non avevo dubbi.

In sua compagnia, quel grande magazzino mi faceva pensare al paese dei balocchi, solo che a differenza di Pinocchio, avevo moglie e figlia e mi sentivo in colpa, non potevo lasciarmi andare all’allegria.

Ludo invece era euforico, afferrò una chitarra elettrica Gibson ed esclamò “Questa me la compro! Dove la troverò mai a 700.000 Lire e a 30.000 al mese! Così quando faremo le seratine di liscio, tu fingerai di suonare la fisa, ché comprerò anche quella, ed io farò finta di suonare questa e sembreremo Castellina & Pasi! E quando mi stuferò, la rivenderò a uno dei bottegai di Genova e ci guadagnerò ancora qualcosa”.

La sua euforia mi metteva i brividi, era incontenibile.

Ordinò un mixer da sedici canali ed un altro da otto, poi quattro grosse casse da 400 Watt, un subwoofer, un impianto luci e uno di fumogeni: “Perché pure le luci e i fumogeni?” chiesi sbigottito. “A Capodanno faremo un casino memorabile!” rispose lui.

Ma dove? Ludo per tutta risposta ordinò altre due tastiere, poi tre microfoni e un sacco di cavi e aste per i microfoni, trespoli, leggii, tre canzonieri e una trentina di floppy-disk con basi musicali di ogni genere.

Sette milioni in tutto, 280.000 lire al mese di rate. Bazzecole.

I commessi, tutti giovani, estremamente gentili, competenti e rassicuranti con il loro accento piemontese, scrivevano tutto su appositi foglietti gialli che poi ci consegnavano con garbo dicendoci di portarli alla cassa. E Ludo diceva loro di non dare fiato alla bocca, ché lui era cliente da anni.

Fu alla cassa che feci l’ultimo tentativo per fermarlo: “Non credi che abbiamo comprato più di quanto realmente ci occorra?” gli bisbigliai mentre, con gesti rapidi e decisi, stava firmando i contratti di affitto a riscatto.

Il signor Merula, un signore distinto e di una cordialità squisita, con l’aria sempre attenta, udì senz’altro le mie parole, ma non fece una piega.

Ludo gli sorrise ironico e gli disse: “Lo scusi, è Pierin, un bravissimo pianista, ma non è tanto a posto. Me l’hanno affidato i servizi sociali apposta perché lo porti in giro a socializzare”.

Il signor Merula rimase sempre impassibile ed io lo ammirai di più.

Ludo gli versò un milione e 400.000 in contanti, dopo averli estratti dalla tasca interna della giacca con la destrezza di un prestigiatore e contati con la destrezza di un cassiere di banca; era la caparra del 20% sui 7 milioni; non mi aveva detto che c’era anche quella da pagare e credetti di svenire.

Il signor Merula, oltre alla cartellina con le copie dei contratti, gli consegnò due buoni: uno per due pasti completi in un ristorante convenzionato di Bra e un altro per il rimborso di 20.000 Lire di benzina.

Finalmente uscimmo da quel luogo di meraviglie e mi ritrovai più che mai smarrito nella cruda realtà. Non avevo il coraggio di tornare a casa e riferire a mia moglie di quelle spese pazze; era convinta che fossi uscito per chiudere una trattativa di lavoro e invece avevo contratto un debito era peggio che averla tradita.

Ludo invece era ancora desideroso di esprimere la sua ammirazione per il signor Merula: “Mi devi dire chi è il commerciante che ti paga la benzina e ti offre perfino il pranzo, se vai a comprare da lui. I bottegai di Genova, a farsi pagare la merce tre volte quella che vale, sembra che ti facciano ancora un favore” scoppiò a ridere di scherno ed io gli dissi: “Ti hanno dato il buono per il pranzo, andiamo a mangiare”.

Lui aggrottò la fronte: “Sì, adesso facciamo pure il pranzetto tête-à-tête, come gli innamorati! Così non arriviamo mai più e mi perdo la partita a scopone”. C’era un gruppo di ragazzi che avevano comprato delle chitarre e si contavano gli spiccioli. Ludo, con modi da signore, regalò loro il buono e andammo a ritirare la roba dal magazziniere.

Mentre tirava giù i sedili di dietro, mi ordinò di prendere una cassa e vedendo che facevo troppa fatica a sollevarla me la strappò di mano: “Dai qua, ché hai la forza di una camola” così parlò e scuotendo la testa sistemò la cassa e tutto il resto in perfetto ordine, poi aggiunse: “È il mio destino di avere un socio scemo. Prima c’era mio cognato Luigi, ora ci sei tu”.

Sulla via del ritorno io pregavo e mi chiedevo perché suo cognato Luigi non era più suo socio, Ludo invece era sempre più esaltato: “Avessi io il grano per mettere su una storia così, mi divertirei un mondo! Ma il grano lo facciamo lo stesso e ci divertiremo di più di Merula, Pierin, vedrai se non è vero!”.

Ero preoccupato soprattutto per la caparra, Ludo mi aveva detto che per il momento non dovevo pensarci e quel per il momento mi era suonato come una minaccia. “Avevi detto che avremmo speso 5 milioni, non 7! E perché poi tutto doppio? E perché tre microfoni, poi?”.

Lui mi guardò con la sua solita aria di superiorità: “Lo vedi che non ci arrivi? Tutto doppio perché quando troverò due locali in un colpo, possiamo dividerci e guadagnare di più. E se ci pigliano in un posto, dove ci sarà da suonare tutte le sere, terremo fisso là un impianto e non dovremo camallare tutte le volte, ché monta e smonta non è bello. L’altro impianto lo teniamo di riserva, ché non si sa mai, se si rompesse una cassa c’è l’altra, e poi lo useremo per le seratine volanti, vedrai che faremo un sacco di feste nella Genova bene, i matrimoni, le cene Lions… E i tre microfoni perché uno è per me, uno per te e il terzo, più scabècio, è per lo sciacchèlo di turno che verrà a romperci i coglioni ché vorrà cimentarsi con il bel canto. Hai mica nel belino che lo faccia sputacchiare nei nostri. Però dobbiamo fare cantare i clienti, così si divertono e tornano e ci chiamano anche a suonare a casa loro. Tu non hai idea del grano che ti farò guadagnare, così finalmente ti metterai tranquillo e mi potrai restituire la parte di caparra che ti ho anticipato. Fidati”.

Così parlò Ludo ed io rabbrividii una volta di più: “Ma io non so cantare!” obiettai, e lui replicò: “Meglio! Così la gente ride!”. Poi mi ingiunse di tacere, doveva concentrarsi per riflettere sulla situazione. Arrivati a Genova, sceso dalla macchina a momenti baciai l’asfalto. Finalmente Ludo acconsentì che mangiassimo un panino in un bar e dopo andammo nel negozio di sua moglie.

Lei non fece domande, avevo già avuto modo di notare che era di poche parole e ci guardava sempre con uno sguardo preoccupato. Nel retro del negozio c’era uno stanzino pieno di stoffe e sistemammo là tutta la roba e la provammo, facemmo un baccano infernale, nonostante le stoffe attutissero.

Ludo mi costrinse a cantare “Champagne”, mi disse che avevo la stessa voce nasale di Peppino di Capri.

Alla fine della mia performance disse: “È vero, non sai cantare, però credimi che “Champagne” sarà il tuo cavallo di battaglia”, poi aggiunse in tono categorico “Teniamo tutto qui perché è a pelo di terra e c’è il parcheggio, tutte le volte verremmo a prenderci quello che ci serve”.

Tornai a casa pieno di angoscia, non sapevo da che parte cominciare il discorso, ma mia moglie, dopo avermi aperto con un sorriso sfolgorante, mi disse: “Ho passato il concorso! Assunta! Inizio tra una settimana. Ho comprato una bottiglia di champagne per festeggiare!”.

Non ero troppo meravigliato, lo sapevo da sempre che si sarebbe sistemata come dio comanda, era ben più intelligente di me. La Natura aveva provveduto. La Natura non era solo Ludo, per fortuna! La mattina dopo, come sempre Ludo mi chiamò e mi comunicò ridacchiando: “Pierin, finalmente novità! Mi ha chiamato un tizio che ha appena aperto un ristorante, dice che vuol fare musica tutte le sere, ma può pagare un musico soltanto. Da come parla ho capito due cose: che è delle tue parti e che perde sia dal tappo che dalla spina, perciò è meglio che ci vai tu, magari vi capite; io non ho voglia manco di vederlo, solo a sentirlo parlare al telefono vengo nervoso. E poi ho un altro abboccamento in un altro locale in Corso Italia”.

“Mi stai dicendo che è un lavoro un po’ a rischio, magari non vale la pena andare…” avanzai dubbioso, e Ludo si alterò: “Fossi in te andrei comunque a sentire che cosa propone, anche solo che per curiosità, magari funziona, chi lo sa. Non fare il pigro, cosa hai da fare a casa? La bambina ti verrà a stufa! Fino a ieri piangevi “e non lavoriamo e dove andiamo! Adesso che lo zio te lo procura manco bene va. Cos’è hai vinto alla lotteria nel frattempo? Facci un salto là, su! Io trovo le serate e a suonare ci vai tu, dovrei chiederti qualcosina per il disturbo!”.

Riattaccò e il telefono squillò subito dopo. Sentii una voce roca, profonda, invadente, offensiva: “BRONDO! Che, parlo col musicante?”, confermai intimorito e la voce tonante parlò ancora: “Abbiamo appena aperto una pizzeria, sta qua vicino a piazza del teatro, a Sampierdarena, se sei interessato puoi venire a vedere. Allora vieni?”.

La tentazione di riagganciare fu fortissima ma dissi sì, che ero interessato, mi sembrava di vedere Ludo che mi guardava con le braccia conserte con la sua aria severa.

La voce rauca e profonda con l’accento meridionale mi disse: “Fai una cosa: domani vienimi a trovare che parliamo”.

“Dove, nel ristorante stesso? A che ora? L’indirizzo?”

“Sì nella pizzeria. Anzi, fai una cosa: hai presente Via Buranello, dove sta il cinema porno?”

“Vagamente.”

“Bravo. Allora vieni là alle dieci che io sto dentro, così poi ti porto a vedere il locale e vediamo dove stanno messe le spine di corrente e vediamo dove ti puoi piazzare”.

“Alle dieci di sera?”

“No di mattina! È alle dieci della mattina che apro il cinema. Arriva puntuale!”.

E la mattina dopo, alle dieci in punto, ero davanti all’unico cinema porno di via Buranello, ma la saracinesca era abbassata.

Rimasi lì ad aspettare non so per quanto tempo, ero imbarazzato, la gente che passava mi guardava con evidente disgusto. Come non bastasse, la pioggia minacciava di venire giù a secchiate da un momento all’altro e non avevo l’ombrello.

Attesi pazientemente guardando le automobili che avanzavano a passo d’uomo in una lunga coda che andava fino alla stazione, dai loro tubi di scappamento fuoriuscivano nuvolette di smog che rendevano l’aria sempre più irrespirabile e i colpi di clacson mi facevano trasalire.

Quella era la città ed io ora ne facevo parte e non mi sembrava possibile.

Trasalivo anche di più ogni volta che si levava improvviso l’urlo dei treni che transitavano sferragliando sul binario sopraelevato. E trasalii più udendo un grido allegro all’improvviso: “Tu sei il musicante!”.

Mi voltai e lo riconobbi anche senza mai averlo visto, stava attraversando la strada, si avvicinava con un sorriso canzonatorio. Era esattamente come l’avevo immaginato: basso e tarchiato, il volto largo, con una barba incolta su cui si potevano accendere i fiammiferi, gli occhiali rettangolari dalla montatura di metallo. Indossava un giaccone blu e sulla testa aveva una coppola velluto di un blu diverso da quello del giaccone: “Vieni appresso a me” mi ordinò, e assieme alle sue parole mi arrivò anche una zaffata del suo alito che puzzava di aglio e di Fernet.

Quando fummo davanti alla saracinesca mi disse imperioso: “Alza a destra e io a sinistra”.

Entrammo e subito un tanfo di muffa mi ferì le narici, mi parve di essere di nuovo nella balera di Pasquale e mi si risvegliarono nell’anima tutte le antiche sensazioni sgradevoli che vi avevo provato. Era stato solo un mese fa ma mi parevano passati degli anni.

Il tizio con la coppola dopo aver aperto uno stipo a muro e tirato su l’interruttore generale, si avviò al botteghino. Ma non fece in tempo ad arrivarci che già erano entrati due vecchi dall’aspetto macilento; biascicando, mugugnarono per l’apertura ritardata e vollero fare i biglietti nonostante che il tizio avesse detto loro che per la prima proiezione c’era tempo mezz’ora.

Afferrarono i biglietti con le loro mani tremolanti e sparirono dietro il tendone rosso. L’uomo con la coppola dopo averli guardati scuotendo la testa mi disse “Questi due disperati sono sempre i primi ad arrivare e gli ultimi a uscire, non ho ancora capito se perché a casa loro ci fa più freddo di qua o perché non ce l’hanno proprio, una casa”.

“Quando andiamo a fare il sopralluogo?” gli domandai ansioso.

Lui mi guardò meravigliato, poi disse: “Già, è vero. Allora mo’ fai una cosa: avviati che io intanto chiamo il mio socio, è andato lui ad aprire stamattina, sta pulendo, io devo stare qua”.

Feci per avviarmi, ma non era ancora tutto, l’uomo con la coppola mi gridò: “Aspetta! Fai una cosa: fammi ‘sto favore visto che vai là, portati questo sacco di pane”.

Trasse da sotto al banco un saccone di carta, non ne avevo mai visti così grandi. Lo afferrai, pesava almeno cinque chili, era pieno di rosette, minacciava già di strapparsi in più punti.

L’uomo con la coppola mi spiegò: “Il ristorante sta nel vicolo sulla destra del teatro, appena un poco dentro, vedrai che lo trovi facile. Vai, mi raccomando stai attento al sacco di pane, non lo fare rompere!”. Uscii.

Si era messo a piovere a dirotto, dal cielo plumbeo, ben visibile controluce, precipitava una cascata di spilli di pioggia che non mi lasciava scampo. M’incamminai cercando invano di ripararmi stando attaccato al muro. Avanzavo a fatica in mezzo alla folla del mattino, gli ombrelli l’avevano resa una foresta semovente e rumoreggiante piena di inciampi; tenevo stretto il sacco di pane come fosse un bambino neonato, ogni tanto minacciava di scapparmi di mano e mi fermavo sotto le arcate dei portoni, oppure sotto le tende dei negozi. La strada di colpo pareva infinita. Qualcuno al mio passaggio si girava ridendo ed io pensavo che anche Ludo avrebbe riso a vedermi in quella situazione e lo maledissi. Solo quando arrivai nella piazzetta antistante il teatro Modena mi resi conto che non sapevo nemmeno il nome del ristorante.  Posai il sacco di pane su una panchina e telefonai al tizio del cinema porno.

Rispose solo al terzo tentativo.

“Chi è!”.

“Sono il musicante.”

“C’è qualche problema? 

“È che lei non mi ha detto come si chiama.”

“Chi? Il mio socio? E domandacelo tu!”

“Ma no, il ristorante.”

“Ah, non te l’ho detto? E come mai? Si chiama “Forcella Street”. Che, non lo trovi? Te l’ho spiegato bene dove sta, là nel vicolo di fianco, sulla destra, basta che vai un poco dentro”.

“Sì, aspetti, che ci sto andando.”

Avrei speso quasi tutto il mio credito telefonico, ma pazienza, volevo che il tizio mi guidasse per telefono fino a destinazione, ma chiuse la comunicazione. Lo vidi, aveva ancora l’insegna della trattoria precedente ma era l’unico, non potevo sbagliare. Però era chiuso e buio all’interno. Non c’era niente su cui poggiarlo, allora posai il sacco di pane a terra e richiamai il tizio con la coppola e stavolta rispose subito “BRONDO!”

“È chiuso.”

“Chi è chiuso?!”

“Il vostro locale.”

“Ah! E che strano! E come mai?”

“Non lo so.”

“Azzo! Ma vedi?! Allora senti, fai una cosa: vai a quel bar che sta di fronte, sta giusto dall’altra parte del marciapiedi, lo vedi? Hai capito qual è?”.

“Sì, lo vedo e ho capito qual è.”

“Bravo, fai una cosa: entra dentro, ché quelli ci conoscono. Digli che gli lasci il sacco di pane là da loro, che poi ci andiamo noi a riprendercelo”, chiuse la comunicazione.

Non mi restò che entrare nel bar. C’era una scarsa illuminazione e faceva freddo, vidi solo due tizi sulla quarantina, alti e smilzi, dietro al banco; tutti e due avevano una camicia bianca e portavano lo stesso modello di occhiali di celluloide, pensai fossero gemelli.

Non mi dissero nemmeno buongiorno, si limitarono a guardarmi con aria ostile e interrogativa. “Vengo a nome dei signori del ristorante di fronte, li conoscete?”,  i due fecero segno di no con la testa.

“Mi hanno detto di lasciarvi in custodia questo sacco di pane, loro verrebbero a ritirarlo più tardi, posso?”.

I due mi fecero di nuovo cenno di no con la testa.

Non insistei, uscii, mi appoggiai al muro e presi un bel respiro.

Rifeci il numero del tizio con la coppola; di nuovo tre tentativi, poi finalmente si degnò di rispondere: “BRONDO!”

“Quei due signori del bar mi hanno fatto capire a gesti che non vi conoscono e, sempre a gesti mi hanno fatto capire che non volevano prendere in consegna il sacco di pane.”

“Ah, così? Ma che strano! E come mai?”

“Ma che ne so!”

“Ma tu sei sicuro che era quello il bar?”

“È l’unico sul marciapiedi di fronte, loro sono due fratelli gemelli, credo, si somigliano molto”.

“Azzo, sì, allora so’ proprio loro… Ma tu te lo sei pigliato un caffè?”

“No.”

“E hai sbagliato! Che quelli sono genovesi, perciò ti hanno mandato via! Ti dovevi pigliare almeno un caffè! Me lo dicevi, ti davo i soldi. Vabbè, non fa niente, fai una cosa, riportamelo qua!”.

“Cosa?!”

“Come cosa? Il sacco di pane! Fai subito!”

“Non è vero, non ci credo” continuavo a ripetere macchinalmente, intanto che ritornavo al cinema porno, sotto un acquazzone sempre più forte.

Il marciapiedi era sfasciato in più punti, con larghe pozzanghere, dalle grondaie rotte crepitavano cascate d’acqua, la carta del pane si era scurita e cominciava a disfarsi, ero in un bagno di sudore, mi aspettavo di vedere le rosette rotolare di qua e di là, sul cemento lucido di pioggia e io che mi affannavo a raccoglierle nell’indifferenza dei passanti.

Il sacco non si ruppe e rientrai nel cinema porno, lo misi sul ripiano del botteghino.

“Ah, eccolo, ridammelo qua! Uè, ma si è un poco rovinato! È bagnato! Che, sta piovendo? Che strano però, ho chiamato ancora il mio socio mentre venivi e non mi risponde, quegli altri due fetusi prima fanno tanto i gentili e poi! Che cazzo, un poco di solidarietà fra commercianti! E mo’ come facciamo? Mi sa che devi ritornare per vedere il locale, magari oggi pomeriggio e se no facciamo domani”.

“Facciamo che vi chiamo io” dissi tagliente, ma l’uomo con la coppola non colse il sarcasmo.

Uscii finalmente da quel luogo infero e respirai a pieni polmoni una bella boccata di smog, mista ad ozono, e mi parve meglio dell’olezzo dolciastro di muffa.

Arrivai bagnato fradicio in piazza Barabino, dove avevo lasciato la macchina, in sosta vietata. Per fortuna la multa non c’era. Non poteva andare sempre male.

Una volta tornato a casa, telefonai a Ludo e gli riferii di quel surreale sopralluogo e lui non mancò di farsi due risate, poi mi disse in tono rassicurante: “Non ti preoccupare Pierin! Siamo a posto lo stesso. Mi sono accordato con quelli del locale di Corso Italia. È bello. Lavoreremo là tutte le sere, festa solo al lunedì. Volevano solo me, mi avrebbero dato 100.000 a serata, ma ho detto che anche Pierin deve mangiare e loro mi hanno detto “Porta tutti i musicisti che vuoi, tanto sono sempre 100.000”.  E ce le divideremo fraternamente, meglio che niente, ti pare? Ché a dirla tutta, son rubate. Su, vieni in negozio, che andiamo a montare tutto l’ambaradero”.

E così, il fantastico due Ludo & Pierin finalmente debuttò.

PIERO TROFA