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Processo ultrà Genoa. Calcio a mia moglie? Cataldi minimizza

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Tribunale di Genova (foto di repertorio)

“Il calcio a mia moglie? Fu una contestazione minima dei tifosi”.

E’ quanto ha riferito, in sintesi, ieri in aula il calciatore della Lazio Danilo Cataldi, sentito a Genova come testimone al processo a 15 ultrà del Genoa per i presunti ricatti alla società.

Un’affermazione che ha lasciato perplessi i giudici tanto da fare esclamare al presidente del collegio giudicante: “Se le sembra una cosa normale che un tifoso tiri un calcio a sua moglie”.

A sferrarlo era stato, secondo il pm della Procura di Genova, l’ex capo ultrà del Genoa Massimo Leopizzi il 7 maggio 2017, che avrebbe costretto “il calciatore Cataldi e la moglie a non farsi fotografare da una famiglia di tifosi del Genoa al termine della partita Genoa-Inter perché ‘indegno'”.

Cataldi ha in un primo momento minimizzato le pressioni dei tifosi e le aggressioni parlando di “male parole, insulti ma non contatti fisici”.

Poi, incalzato dai giudici, ha parlato di spintoni e ha confermato le testimonianze rese durante le indagini.

A processo ci sono 15 tifosi che erano stati indagati nell’ambito dell’inchiesta sulle estorsioni alla società dal 2010 al 2017.

L’indagine era del sostituto Francesca Rombolà e del procuratore aggiunto Francesco Pinto, e aveva portato in carcere Massimo Leopizzi, Artur Marashi e Fabrizio Fileni con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’estorsione e violenza privata per aver estorto al Genoa circa 327 mila euro.

Per gli investigatori della Squadra mobile di Genova, la tifoseria teneva sotto scacco la squadra per garantire la pace del tifo ed evitare altre contestazioni.