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Il Corsaro al Teatro Carlo Felice | Recensione di Elisa Prato

Il Corsaro al Teatro Carlo Felice | Recensione di Elisa Prato
Una scena de Il Corsaro di Giuseppe Verdi al Teatro Carlo Felice

Il Corsaro di Giuseppe Verdi è in corso al Carlo Felice per ancora due spettacoli, venerdi 24 e domenica 26 maggio.

Dopo Ernani ed il masnadiero Carlo Moor,  di nuovo  Verdi, nell’ambito di un decennio, racconta di un ribelle fuorilegge, ispirato dal poemetto  dell’inglese Byron, “The corsair” in tre canti in distici a rima baciata pubblicato per la prima volta nel febbraio del 1814 con un grande successo di pubblico.

Il soggetto, proposto al Maestro qualche anno prima,  fu  accantonato in favore dell’Hernani del francese Victor Hugo e solo più tardi Verdi  musicherà il poema di Byron, ma con meno  entusiasmo, dovuto  anche  in particolare ai difficili rapporti con l’editore Francesco Lucca.

La partitura, composta a Parigi, fu consegnata all’editore nel marzo del 1848 ed andò  in scena al Teatro Grande di Trieste nel successivo  ottobre, in assenza dell’autore per addotte ragioni di salute, mal accettate dal pubblico  che ne sancì l’insuccesso, nonostante il valore del cast.

L’opera è in scena nello stesso allestimento proposto nel maggio del 2005, una coproduzione con il Regio di Parma con le scene di Marco Capuana e la regia del compianto Lamberto Puggelli, ripresa da Pier Paolo Zoni.

La trama è semplice e, come qualche volta succede nell’opera lirica, abbastanza improbabile (sempre meglio che quella del Trovatore, comunque).

Il corsaro Corrado, stanco della prigionia su un’isola dell’Egeo, decide di fuggire per attaccare il pascià turco Seid, abbandonando l’amata Medora.

L’attacco è sventato dai turchi, e Corrado e i suoi corsari vengono condannati a morte. Ma  Gulnara, prediletta del pascià e innamorata di Corrado, uccide Seid e libera il suo amato.

Di ritorno sull’isola, Corrado incontra Medora ormai morente perchè, credendo morto Corrado, aveva  deciso di togliersi la vita.

Di fronte a questa tragedia, Corrado si getta in mare accompagnato dall’urlo di Gulnara: un finale drammatico quanto enigmatico in quanto non si comprende se i suoi riusciranno a salvarlo: il dramma si chiude  con una solitaria ed emblematica scala che va in su quanto in giù.

La scena di Marco Capuana si avvale di una struttura quasi fissa, il ponte di una nave con vele in movimento che si dispiegano o si ammainano mediante l’uso degli alberi come bracci mobili, vele che si colorano e si trasformano di volta in volta persino nelle tende dell’harem del sultano: il risultato è comunque suggestivo anche per il bel gioco delle luci, quasi sempre  su toni scuri.

La battaglia  fra musulmani e corsari è una delle scene più riuscite dello spettacolo: un plauso al maestro d’armi Renzo Musumeci Greco che ha così abilmente e credibilmente   movimentato una drammaturgia poco mobile, che poteva risultare statica, coordinando perfettamente  l’azione dei combattenti con la musica.

Una scena davvero impressionante è quella del confronto fra Corrado e la favorita del sultano Gulnara, in cui lei rivela il suo amore per il protagonista e l’odio per il sultano (poiché “schiava son io… sol nel cuore dei liberi sa germogliare l’amore “), lui le fa capire di amare un’altra  e la gabbia fatta di corde che imprigiona Corrado comincia ad ondeggiare con un moto impetuoso che comunica al pubblico tutta l’intensità  dei sentimenti e la gravità di una situazione che prepara l’omicidio del sultano.

La psicologia dei personaggi risulta ben caratterizzata nell’affrontare il destino avverso   che ritorna implacabile, una costante nelle opere di Verdi.

Corrado è un eroe puro che antepone il dovere e la dignità al sentimento,  molto intenso, verso Medora, la quale, pur nella brevità della parte, rappresenta la purezza e la tenacia dell’amore; Gulnara si dimostra comunque battagliera nell’affrontare la propria infelicità sentimentale in quanto  odia colui che la ama ed è rifiutata   da colui che ama.

Ancor oggi il dramma è uno dei meno rappresentati e compresi dell’intera produzione verdiana: già nei commenti dell’epoca il Basevi sottolineava come “a compensare quella vita che manca in tale lavoro, il Verdi adoperò quel brio artificiale, che nasce dai movimenti celeri in battute corte: in 22 pezzi dei più rilevanti, non incontrasi un adagio; 8 sole volte ha luogo il tempo ordinario e 7 il 6/8.

Non intendo muovere rimprovero al Verdi per avere usato un certo tempo e movimento anziché un altro, ma stimo utile di notar tal fatto perché mi sembra poco conforme al genio grave, tutto che impetuoso, del maestro di Busseto.”

Bene l’orchestra e il coro. Il direttore  Renato Palumbo, conoscitore di Verdi, ha offerto una bella lettura, ora vigorosa ora sapiente, con un buon rapporto  con il palco. Insieme a Palumbo il tenore Francesco Meli nei panni di Corrado ha reso un’ottima prova in tutti gli alti e bassi psicologici della trama, e così Mario Cassi nel ruolo del sultano. D

el tutto convincente  Irina lungu come Medora, alla quale è affidata la  pagina rimasta più famosa dell’intera opera, quella canzone che apre la quarta scena del primo atto ” Non so le tetre immagini …”.

Splendida nella sua vigorosa vocalità con qualche indulgenza belcantistica Olga Maslova nella parte di Gulnara. Il cast e l’orchestra sono la vera punta di diamante dello spettacolo, comunque piacevole  e scorrevole, della durata di un’ora e quaranta, che ha strappato vigorosi applausi a scena aperta. ELISA PRATO