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Racconti I Generale dietro la collina (di Albaro)

Quarto appuntamento con il musicista Piero Trofa. Come già spiegato, non è una collaborazione musicale, ma da scrittore.  Trofa è molto conosciuto nell’ambiente dello spettacolo, ed è autore di colonne sonore per documentari e spot pubblicitari, ed insegna musica in scuole pubbliche e private. Alla musica si dedica completamente, sempre con grande attenzione agli aspetti formativi e alle connessioni che esistono tra musica e filosofia, la sua grande passione. Dal 1998 è presidente dell’Associazione Musicale Centro di Documentazione e Produzione Musicale “Ettore Panizza” con la quale organizza concerti ed eventi culturali in Italia e all’estero. In questo suo quarto racconto narra del suo incontro con un Parroco e con un vecchio Generale…

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Non solo non sarei mai riuscito a credere in me (con tante cose in cui credere!), ma ormai non potevo credere nemmeno più in Ludo.

Ancora oggi sono convinto che non possa esistere persona più folle di chi crede solo in sé stesso, soprattutto se la pensa come Ludo.

In chi credevo? In quel momento solo in mia moglie, mia unica alleata, compagna leale di vita e di lotta per la sopravvivenza, nonché ancora di salvezza. Ma Ludo non sbagliava sul fatto che sebbene lo stipendio di lei bastasse per tirare avanti, mi sentivo da meno nel non riuscire a guadagnare perlomeno altrettanto. Non era tanto per lo spirito di competizione, non era orgoglio e dignità, semplicemente, se non riuscendo a guadagnare quanto un normale lavoratore non mi sembrava di giustificare la mia esistenza.

“Perché puoi essere bravo artista quanto vuoi, ma alla fine dei conti, l’unico parametro per valutare una persona è quanto tabacco riesce a portare a casa”. Così diceva Ludo stesso, a dispetto del suo scriteriato comportamento e non potevo che dargli ragione. E tanto più ci soffrivo perché mia moglie non me lo faceva pesare, non so se mi spiego. E poi ero anche padre! Che esempio sarei stato per mia figlia?

Temevo di essere solo un presuntuoso, uno che si credeva un artista e non lo era, ce n’erano molti come me, totalmente privi di talento e anche oggettivamente incapaci di suonare, ma assolutamente convinti di essere artisti autentici. Perciò la gente estranea e totalmente ignara del retroscena surreale del nostro mondo spesso ci diceva: “Fai il musicista? Va bene, ma che lavoro fai?”… Giustamente non si poteva concepire che potessimo campare solo andando in giro a suonare canzonette. Ma più del senso di colpa nei confronti di mia moglie, mi inquietava il fatto che mia madre e tutto il parentado mi avevano dato del folle per essermi avventurato nell’oceano della vita a bordo di un guscio di noce. Temevo che non aspettassero altro per dirmi: “Noi te l’avevamo detto!”.

Solo adesso mi rendevo conto che nel momento in cui mi ero deciso di andarmene di casa, avevo stipulato un tacito patto con me stesso, semplice ma ferreo: se mai mi fossi trovato nella necessità di dovere andare a battere cassa da mia madre, piuttosto sarei andato a chiedere l’elemosina. Al pensiero di quell’eventualità, mi prendeva un sordo furore, tanta è l’intransigenza cui può portare l’assunzione di un principio moralistico. Per lo stress mi si squamò la pelle su tutto il viso, specialmente sulla fronte, quando mi guardavo allo specchio mi impressionavo.

Una voce, che non mi sembrava la mia, ogni tanto risuonava in me: “non puoi fare altro che attendere e sopportare”. Così, accudivo mia figlia, dalla mattina fino alle quattro e mezza del pomeriggio, ora in cui arrivava mia moglie a darmi il cambio. Era bellissimo stare con la piccolina ma i suoi sorrisi innocenti spesso mi gettavano in uno stato di prostrazione. Me la tenevo accanto mentre studiavo, avevo sistemato la tastiera a capo del letto, non mi limitavo ad imparare nuove canzoni, esploravo modi più raffinati di suonare, volevo aumentare le mie capacità il più possibile nella speranza di farmi trovare pronto se mai fosse capitata la grande occasione. Tutti noi musici di serie C viviamo in questa speranza, molto spesso inconfessata anche a noi stessi. È cominciata da quando eravamo ragazzi e il sogno ci ha irretito a tal punto che lo terremo vivo tutta la vita, a dispetto della più crudele evidenza.

È una passione, cioè una patologia. Ho un ricordo nitidissimo di quando fui contagiato: avevo cinque anni, mi trovavo con i miei ad una sagra paesana e c’era un complessino di “capelloni fetenti”, come li chiamava mio padre, li vidi così esaltati mentre suonavano “La donna di un amico mio” di Roberto Carlos che rimasi folgorato. Passai tutta la serata accanto a loro a guardare a bocca aperta le chitarre, gli spinotti colorati, i microfoni, la vocale con l’eco a nastro che girava e girava. Fu una vera e propria attrazione fisica per quegli oggetti con le spie che luccicavano, ma soprattutto per la potenza sonora che sprigionavano. Credo che quel desiderio sia lo stesso per i motori, per le armi, per lo sport, quando studiavo Freud teorizzai che lo stereo per noi ragazzi era il simbolo del nostro pene e infatti facevamo a gara a chi lo avesse più grosso e più potente; e quando lo dissi a mio fratello e lui, sempre con quella aria sognante e guardando altrove mi disse che gli sembrava una teoria della minchia, credetti ancora di più di avere centrato il punto. Ma a quell’età, per me quegli strumenti erano solo i più bei giocattoli che avessi mai visto e decisi che sarebbero diventati i miei ferri del mestiere perché sentivo che quello sarebbe stato il mio mestiere. Naturalmente sognavo di diventare una grande rock star, perché per noi ragazzi i cantanti erano eroi che contrastavano i potenti della terra con la potenza straordinaria della loro strumentazione.

Ascoltavo i Led Zeppelin a tutto volume e mi esaltavo come se assistessi ad una battaglia. Mio padre a volte irrompeva nella stanza mentre infuriavano le note di Black dog, abbassava il volume a zero e mi diceva con tono di scherno: “Tu poi, secondo te, tutto questo frastuono sarebbe musica?” e mi strappava di mano la copertina del disco e la esaminava con ironica curiosità, indicava l’immagine di Robert Plant col gilet di pelle e i bicipiti in bella mostra e sbottava: “Ma vedi a chisto! Tu mi devi dire che cazzo mi rappresenta accussì mezzo sporcelluto, per meritarsi tutta questa tua devozione. Guarda qua, che belle braccia grosse tiene! Non gli parrà vero di avere sparato alla zappa. Che ti credi che a casa sua sta vestito così? Doveva essere fesso. Là si mette il vestito buono, si assetta sulla poltrona, si fuma una sigaretta e se la ride di voi poveri imbecilli che vi perdete appresso a queste corbellerie! Questi furbi si arricchiscono alla faccia vostra e voi li venerate come santi! Peccato soldi buttati! Ma sentiti Giuseppe Verdi!”.

Per me quelle erano chiacchiere di un matusa ma quando ascoltai “We’re Only in It for the Money” di Frank Zappa, sospettai che non avesse tutti i torti.

Ma come si può dare ragione a un genitore quando si è adolescenti? Continuai a sognare come e più di prima, e i miei sogni erano tutt’altro che vaghi, ché a quell’età l’immaginazione è potentissima: quando giocavo a pallone era esattamente come se fossi nello stadio Maracanà assieme a Pelè, e così quando suonavo nella mia stanza era proprio come se fossi al Madison Square Garden, ero Elton John! Ora, sognare a occhi aperti è normale e meraviglioso finché sei adolescente, ma se il sogno perdura anche quando sei cresciuto può diventare imbarazzante e pure pericoloso. Eppure, noi musici di serie C continuiamo a sognare con lo stesso candore di quando eravamo adolescenti. C’è un guru, non mi ricordo più chi sia, che ha detto che “guai a far morire i nostri sogni!” e così noi musici di serie C aspettiamo il giusto premio, non solo per tutte le frustrazioni e le sgarberie subite, ma come se fosse un merito aver avuto l’ardire e la tenacia di sognare di vivere solo di arte. Per mia madre non era tenacia ma protervia: “Basta! Fai i compiti! Sono ore che suoni sempre la stessa tiritera, non ne posso più! Cosa te ne farai di tutto questo!” mi gridava spazientita, irrompendo nella stanza. Come spiegarle che stavo mettendo a punto il mio repertorio con il quale mi sarei guadagnato da vivere per trent’anni, sia pur fra continue difficoltà? Lei era una professoressa di latino e greco, era logico che volesse che diventassi professore anch’io. Quando la sua collega che mi insegnava italiano al ginnasio le disse che dai temi che scrivevo si evinceva chiaramente che avevo un temperamento artistico e che forse era meglio che facessi solo il conservatorio, tornò a casa e mi gridò, infuriata e offesa: “Mi sono dovuta sentir dire da Lina che non sei buono per il liceo classico! Vedi quello che devi fare!”.

Ed io avevo cercato di accontentarla, mi ero perfino laureato in filosofia col massimo dei voti, ma poi, guarda caso, le cose si erano messe in modo tale che il mio vecchio sogno sembrasse un destino ineluttabile. Forse, inconsciamente, ero stato io a metterle così. O forse era davvero il mio destino? Non l’avevo mica fatto apposta ad andare a presentarmi nel mio vecchio liceo troppo tardi. In ogni caso, adesso ero ancora là, seduto davanti ad una tastiera, a suonare e suonare, con mi figlia che mi dormiva accanto, alla quale, senza pensarci, stavo regalando l’orecchio assoluto che l’avrebbe poi spinta a ricalcare le mie orme. Potevo essere più protervo? Per lavarmi dal senso di colpa mi davo da fare a tenere la casa in ordine, poi uscivo a fare la spesa e tutte le signore del circondario, giovani e anziane, all’inizio mi guardavano incuriosite e quando facemmo amicizia mi confidarono che mi chiamavano il mammo.

Il quartiere di Via Antica Romana era un favoloso miscuglio di antico e moderno: alle secolari e pittoresche casette a un piano solo, che affacciavano sulla stretta via, intersecata da torrentelli da strette mulattiere e da improvvisi squarci di verde, facevano contrasto i modernissimi isolati della più vasta e ridente Via Fabrizi, che degradava giù verso il mare: “Qua una volta era un immenso uliveto” mi raccontò ai giardini una nonna con occhi pieni di nostalgia. Volevo che mia figlia crescesse in quell’oasi di pace e di silenzio, nel verde e nell’aria buona, sarebbe andata in quella scuola davanti alla quale non transitavano auto, sarebbe stata felice, lontana dal traffico e dal frastuono cittadino. Ma ce la farò? Mi chiedevo ansioso tutte le volte che il mio padrone di casa si presentava per chiedere l’affitto, o anche solo per piazzare le esche per i topi nei fondi della vetusta palazzina di cui abitavamo il piano terra.

Era fiero di come aveva ristrutturato il nostro appartamentino di soli 50 metri quadrati, mi chiedeva il permesso di dare un’occhiata anche al giardino per vedere come stava l’albicocco e si rallegrava che dava sempre le albicocche, ci raccomandava di mangiarle, come se non avessimo occhi per vederle: “Mangiate pure l’uva fragola! E prendetele, le foglie d’alloro, che vanno bene per cucinare e non dimenticatevi di annaffiare le rose. Però il pesco è seccato! Peccato! E mi raccomando, alla sera chiudete sempre con il bastone dietro la porta sul giardino e serrate le persiane, se no vi entrano i ladri in casa! mi diceva tutte queste cose ogni volta prima di andarsene. Un secondo suocero, che però ogni mese esigeva le 600.000 Lire, rigorosamente in contanti. E quando gli feci notare che, siccome si preoccupava tanto che ci entrassero i ladri, sarebbe stato meglio che la finestra che affacciava sulla crêuza fosse stata protetta da un’inferriata, lui prima mi disse che bastavano gli scuri di legno, poi si fece pensieroso e se ne andò borbottando che avrebbe cercato di “recuperarne una” e dopo pochi giorni si presentò con un’inferriata bellissima e robusta, sicuramente antica, dovevano averla fatta perlomeno all’inizio del secolo: “Mi sembra resistente.” osservai e lui esclamò ammirato: “Belàn, scampassimo noi come quest’inferriata chi!”

Mentre dipingeva l’inferriata mi faceva domande sul mio lavoro, mi diceva che meno male che mia moglie “aveva la busta”. Mi faceva domande sulla mia Citroën Bx e quando gli dissi che ben presto avrei dovuto cambiarla si voltò a guardarmi esterrefatto ed esclamò: “Come! È nuova!” e non voleva credere che fosse solo 1.100 di cilindrata. “Ma è sicuro? È così grossa! La mia Ritmo è 1.100!”. L’aveva comprata nel 1977, che era appena uscita, adesso aveva più di 15 anni. Gli spiegai che la mia, pur vecchia di soli quattro anni, aveva ormai percorso quasi 100.000 chilometri e lui mi fissò di nuovo con occhi increduli: “Belàn se ci cammina! La mia in 15 anni ne ha fatti appena 8.000!” mi disse che la usava solo per farci la spesa venire da noi dalla sua casa, su agli Ometti, a nemmeno ottocento metri di distanza. “Certo che lei il bollo lo sfrutta!” concluse con il tono di chi si lamenta di aver subito un’ingiustizia ed io ribattei, come per scusarmi: “In compenso, consumo le gomme!”.

Dopo qualche giorno tornò per informarmi con giusto anticipo che a partire dall’anno prossimo avrei dovuto dargli “qualcosina in più” per l’affitto, tipo 30.000 al mese, ed io pensai che avesse rimuginato sull’ingiustizia del bollo e volesse lavarla e mi rimproverai per non essere rimasto zitto. Ma stare zitto era la cosa che allora proprio non riuscivo fare, soprattutto con i miei, e quando mia madre venne a trovarmi le raccontai ogni cosa. Combinazione, arrivò il padrone di casa e lei, che di solito se ne stava seduta in un angolo tacendo, guardandoci tutti con uno sguardo da sfinge, subito lo apostrofò aggressiva: “Questo appartamentino sembrerà pure la casetta delle fate, come lei dice, ma solo da dentro, perché l’edificio nel suo complesso è decisamente fatiscente! E il giardino è bello, però c’è pieno di zanzare e sono anche molto aggressive, non si può resistere nemmeno un minuto! E vuole anche un aumento?”.

Lui replicò tranquillo: “Eh, lo so, scignua, ci son due zanzarette perché annaffiamo, ci vuol pazienza, è la natura. E bisognerebbe rifar le facciate, sì, la palazzina sta così dal ’40. Però la costa, sa, poi ci dovrei chiedere anche di più a suo figlio per l’affitto! E mica ci avrebbe piacere di vedersi i ponteggi davanti alle finestre e mangiarsi la polvere per dei mesi, la figlia adesso è piccola, pure gli altri inquilini, ci ho parlato, mi dicono che è meglio che nun femu ninte. Anche il mio avvocato dice di non far niente, se no poi vengono quelli delle tasse. Per me è un pensiero stare dietro a tutto. Ma lo sa che una società di costruzioni mi voleva dare un miliardo per tutta la palazzina?”.

Mia madre gli chiese con disappunto perché mai non l’avesse venduta e lui le rispose senza esitare: “E cosa me ne fassu de un miliardu!”.

Mia madre lo guardò con evidente sprezzo e tacque, poi quando fummo da soli mi disse: “Perché mai hai voluto impelagarti con questo esoso contadino? Potevate stare da me, la casa è grande, a Recco si sta molto meglio, il mare è a due passi, non avreste speso un soldo, vi sareste messi via tutti questi soldi e per comprare una casa come si deve, ogni volta che vi devo qua mi viene il cuore piccolo piccolo…”.

Mio fratello osservò con ironia: “Stupisce l’entusiasmo che mostrate, pare veramente sincero”.

Anche lui non aveva lavoro, si occupava di nostra madre, l’accompagnava dappertutto come una guardia del corpo e lei per premiarlo gli aveva comprato una Wolkswagen Golf nera. Non lo invidiavo per niente, lei prima o poi sarebbe mancata e allora come avrebbe fatto? Non era il momento di pensarci, ben altro premeva, non sapevo più da che parte girarmi per vedere da dove potevano provenire pericoli. Una mattina bussarono alla porta andai ad aprire più timoroso che mai. Era una signora bionda, di mezz’età e di bell’aspetto che avevo incrociato qualche volta nella crêuza. “È lei che suona il pianoforte?” mi chiese timidamente e le spiegai che in realtà si trattava di una pianola elettrica (non la chiamavo più tastiera, tanto tutti la chiamavano pianola, e poi pianola mi piaceva). “Verrebbe a suonare su in chiesa, di domenica? Però deve portare la pianola, ché il vecchio organo non funziona”. Le chiesi quanto sarebbe stata la diaria e lei si scandalizzò ed io le spiegai che suonare era l’unico mio mestiere, ero padre di famiglia e se non mi avessero pagato ben presto non mi avrebbero visto più, ché sarei finito al Massoero. Allora lei ebbe uno sguardo pieno di compassione e promise che se avessi suonato gratis alla messa mi avrebbe organizzato dei corsi di chitarra per i bambini della parrocchia e mi invitò a presentarmi dal prete già quel pomeriggio. E ci andai. Il Parroco era un tipo grassoccio con due occhiali dalla montatura di celluloide nera dalle lenti spesse e affumicate, allegro e gioviale, riconobbe subito il mio accento molisano perché era di origini abruzzesi e mi fece un mucchio di domande sul perché mai la mia famiglia avesse abbandonato la nostra amata terra per venirsene in quella città che di superbo non aveva ormai più niente. Gli spiegai che noi tutti non ci saremmo mai aspettato che la città fosse così in declino ma che dopo le colombiane eravamo molto speranzosi nel futuro e lui si fece una risatina. Mi consegnò gli spartiti dei brani da suonare, erano perlopiù canzoni che il coro doveva cantare in certi momenti della messa. Vedendo la mia faccia perplessa, mi chiese da quanto non mettevo piede in chiesa ed io gli confessai arrossendo che ero stato a messa solo due volte, il giorno della prima comunione e quando mi ero sposato. E già che ero in vena di ammissioni, gli dissi anche che gli spartiti erano inutili, tanto non sapevo leggere la musica e lui esclamò: “Ma come, mi hanno che lo fai di mestiere!” Allora gli spiegai che suonavo a orecchio, avevo voluto imparare da solo, mi ero sempre rifiutato di imparare a leggere le note perché quando avevo quattro anni mia madre le stava insegnando a mio fratello più grande e a me aveva detto: “A te no, sei ancora troppo piccolo”.

Poi mi ero laureato in filosofia sei anni addietro, avrei voluto insegnare ma ancora non era stato indetto un concorso con dei posti, mi ero presentato nel liceo privato che avevo frequentato, ma troppo tardi, avevano già assunto una collega e…

Il prete mi fece un cenno con la mano di calmarmi: “E mo’ che mi racconti tutta la vita tua? Se suoni a orecchio basta e supera per andare dietro al coro, mica devi suonare Bach. Certo, se mi suonassi una corale mi piacerebbe”.

Gli confessai anche che non sapevo suonare bene la chitarra, conoscevo solo gli accordi del barbiere, e lui mi disse di non preoccuparmi, che era proprio quel che serviva: “Tanto questi guaglioni vogliono imparare le canzoncine, mica devono diventare concertisti, l’importante è che li mettiamo a fare cose carine. Ti abbiamo organizzato tre classi di cinque bambini, per tre ore settimanali. Ho chiesto 50.000 Lire all’ora, così io me ne tengo 10.000 e tu ti pigli il resto, va bene? 120.000 Lire a settimana. In nero, neanche a dirlo: “Però la messa me la fai gratis! E vieni a suonare pure alle feste, che si mangia bene, ché le pie donne cucinano bene”. Così parlò il reverendo mio conterraneo, con tono perentorio, e accettai. Mi pareva equo, tutto sommato, e poi non avevo altra scelta. Così debuttai anche in chiesa, montavo la pianola mezz’ora prima della messa, mi ero procurato anche delle basi di musiche di Bach e fingevo di suonarle in modo meraviglioso, il prete annuì soddisfatto e mi disse: “Lo vedi che impari! Questa è la divina provvidenza!”.

E le pie donne mi fermavano sul sagrato per farmi i complimenti, già mi chiamavano “il nostro organista”.

Avrei fatto anche il campanaro se mi avessero pagato, non so ancora perché ma tutta quella faccenda, se da una parte mi intristiva, dall’altra mi incoraggiava e divertiva perfino. Passò così un mese, poi la primavera scoppiò all’improvviso in tutto il suo rigoglio e anche oltre, praticamente era già estate, c’era un caldo torrido e non avevo voglia di alzarmi quella mattina, mi trascinai di malavoglia al telefono quando squillò. Era una signora mai vista né sentita, perché, come subito mi disse, non era di zona. “Il Parroco mi ha dato il suo numero ma non la chiamo per faccende musicali. Don Franco mi ha detto che lei ha studiato filosofia, è vero?”. Confermai e la signora continuò, con un tono un po’ imbarazzato: “So che è una situazione insolita per lei, ma spero tanto che mi possa aiutare, si tratta di mio marito, tutt’ad un tratto ha deciso che non vuole più uscire di casa, anche se sta ancora piuttosto bene per la sua età”.

“Sì, ma cosa dovrei fare?” “Io ho bisogno di avere almeno un’ora libera tutte le mattine per poter uscire a fare la spesa senza il patema d’animo che mio marito mi telefoni ogni momento per sapere se mi sono spicciata e quando torno eccetera. Allora ho pensato a una persona come lei...”.

“Perché, che persona sono?”. Don Franco mi ha detto che lei è un caro ragazzo, ha molta pazienza con i bambini, e poi è colto e mio marito mi ha detto che vuole avere a che fare soltanto con chi sia in grado di declamare e commentare la Divina Commedia… Guardi che io la pago per questo disturbo”. Lei continuava a parlare ed io pensavo a quanto chiederle. Sarebbe stato per cinque giorni alla settimana. “Quanti anni ha suo marito?”  “Ottantaquattro”. “Va bene, ci proviamo. Direi 40.000 Lire per ogni seduta…”. Sia gentile, facciamo 30.000!”. “Va bene, facciamo 30.000”.

Anche in quel caso, di fare fattura non si accennò nemmeno, d’altronde non avrei saputo nemmeno cosa scrivere nella causale, sebbene, a pensarci, anche declamare Dante, sia pure ad un solo ottuagenario spettatore, era una forma di spettacolo.

La casa era bellissima, luminosissima, arredata in stile liberty, in un bel palazzo nel quartiere di Albaro, poco lontano dalla bocciofila e temevo di incontrare Ludo, immaginavo la sua reazione e già provavo pena. Erano giorni che non lo sentivo, mi ero domandato spesso cosa stesse combinando, come facesse a guadagnare, forse faceva qualche seratina e non me lo diceva. Ma tutto sommato era meglio non saperlo, solo a pensarci si risvegliavano tutte le sensazioni sgradevoli legate all’avventura vissuta con Gipo. Adesso avevo la parrocchia e forse si stava aggiungendo questo nuovo e bizzarro lavoro (la signora mi aveva chiaramente detto che era facile che non piacessi a suo marito e non certo per colpa mia), non era molto, ma era qualcosa e mentre salivo le scale fantasticavo di trovare altre situazioni di quel genere e di arrivare addirittura a fare a meno di andare a far serate. La signora aveva una settantina d’anni, florida, con un bel viso ovale, molto fine, mi aspettava sulla porta d’ingresso con un sorriso accogliente. Con molta urbanità mi fece strada nell’ampio salotto e mi fece accomodare su una poltrona che sembrava essere stata piazzata là apposta per l’occasione. Suo marito stava seduto sul divano, un tipo asciutto dalla carnagione bronzina, austero, con la fronte spaziosa, gli occhi neri penetranti, un naso importante, pochi capelli candidi sulle orecchie. Mi scrutava col mento appoggiato sulle mani serrate nervosamente sul manico d’argento del bastone da passeggio che sembrava piantato nel pavimento.

“Come si chiama!” sbottò ad un tratto, con una voce alta ed autoritaria, facendomi trasalire. “Piero…”. Pietro! Tu sei Pietro e io su questa pietra… Mi dica che cos’è?!”. “È nel Vangelo secondo Matteo…” opinai e lui sgranò gli occhi dalla meraviglia ed esclamò: “Bravo! Lei è preparato!”, e nel suo sguardo fisso, come dipinto sul legno, mi parve di cogliere come un’ombra di disperazione e mi volsi verso la signora in cerca di aiuto, ma lei mi aveva già voltato le spalle per andare in cucina, si assentò per un paio di minuti e ci fu un silenzio imbarazzante finché lei non tornò, portando una colonnina sottile di legno che sistemò accanto a me, su cui poi mise un centrino di pizzo bianco e sul centrino un bicchiere alto di cristallo. “Le fa piacere una bibita fresca? Con questo caldo. Magari un tè al limone, che dice? Lo faccio io”. Accettai macchinalmente, mi sembrava così assurdo e penoso. Il vecchio mi fissava, si avvide che avevo in mano il primo volume della Divina Commedia e sorrise ambiguo, poi ad un tratto proruppe di nuovo: “Lei è un giovane fortunato!”, poi fece vagare lo sguardo tutt’intorno per diversi minuti, come in cerca d’ispirazione. “Amor ch’a nullo amato amar perdona!” Voglio che lei mi spieghi questa frase, stamattina! Sono sempre stato troppo impegnato ad espletare le mie mansioni e non ho avuto mai il tempo di approfondire gli studi letterari!”.

Aprii il libro, intanto mi guardavo intorno anch’io e pensavo che se fossi riuscito a far durare quella faccenda per almeno qualche mese, mi sarei comprato un leggio, di quelli di legno, da messa, per rendere il tutto un po’ professionale. La signora mi salutò e uscì di casa se fosse stata reclusa in quella casa da troppo tempo e qualcuno le avesse detto “Va! Sei libera!”.

La lezione fu piacevole, il generale mi stava ad ascoltare senza interrompere, ma a volte mi sembrava che pensasse a tutt’altro. Dopo un’ora esatta sentii girare la chiave nella toppa, era di nuovo la signora, mi salutò con la mano alla maniera dei bambini e andò in cucina a sistemare la spesa. La prima lettura era finita, salutai il generale e lui mi rispose con un lesto cenno del capo e andai in ingresso, dove attesi per un po’ la signora. Sulla soglia, dopo avermi dato una busta su cui c’era scritto “Signor Piero”, mi disse: “Le do un’ottima notizia. Lei è piaciuto tanto a mio marito! Non è per niente facile, sa, ha un brutto carattere, era un generale dell’esercito, è abituato a comandare, a volte mi fa diventare matta. Ma oggi è andata benissimo, sono molto contenta. A domani!”.

Per strada, fatti pochi passi mi imbattei in Ludo: “Si può sapere dove cazzo sei finito!”… “Sono stato da un generale”. “Non dire delle belinate”. “Sì, un generale dell’esercito in pensione, da oggi andrò tutti i giorni da lui a leggergli la Divina Commedia, almeno finché ne avrà voglia, spero tanto che duri”.

“No, te lo dico io come è! Tu hai dei giri e non me lo vuoi dire, sei stronzo nell’anima. Invece di fare compagnia allo zio che trova le seratine anche per te, te ne vai per mussa, ma prima o poi ti becco e faccio la spia con tua moglie!”. “Ti sbagli, è come ti ho detto, vado in quella casa là, a leggere la Divina Commedia a un generale, vedi ho anche il libro…”.

Ludo lanciò una rapida occhiata scettica al libro e sbottò: “Generale dietro la collina. E secondo te io ci credo? Comunque ti avrei chiamato, domani abbiamo una seratina a Cesino, nel ristorante dove lavorano gli ex tossici, e là non si sa quando prendiamo che c’è da girare col cappello, alla fine. Ma c’è della gente ricca, può anche essere che raggranelliamo un bel po’ di tabacco, chi lo sa. Domani vieni puntuale, lascia perdere il generale dietro la collina!”.

Quando la mattina dopo entrai nella casa del generale e sua moglie percepii subito una certa aria di novità. La signora mi venne incontro con un sorriso radioso stampato sul viso. “Signor Piero, mio marito stamattina vuole uscire con lei!”. In effetti, vidi il generale impettito, con addosso il soprabito leggero e il bastone, pronto per uscire. E uscimmo. Il caldo era più afoso che negli altri giorni e ci incamminammo lentamente verso Piazza Leonardo da Vinci con l’obiettivo di prendere il caffè. Il generale appoggiò la sua mano destra sulla mia spalla e con la sinistra cominciò ad agitare il bastone in aria per sottolineare quello che diceva. Ogni tanto lui si fermava e facevamo una sosta estenuante. Mi raccontò di essere stato prigioniero in Grecia per cinque anni.

“Allora ero capitano, l’invasione dell’Albania era stata una passeggiata, ma quando arrivò l’ordine di mobilitarci per andare a spezzare le reni ai nostri fratelli greci ci rimasi male e ancor di più quando mi presentai in fureria e dovetti pagare 180 Lire per avere la mia pistola di ordinanza. Credo che l’antifascismo sia cominciato allora. La prigionia non mi fu particolarmente infausta, i fratelli greci ci trattavano bene e quando alla fine del conflitto mi riportarono in Italia, decisi di continuare la carriera militare e mi promossero al grado di maggiore”.

“Se non sbaglio, dopo il maggiore viene il colonnello e poi il generale” dissi, tanto per dire qualcosa e il generale si voltò di scatto a guardarmi come sorpreso: “Bravo! Ma allora lei è un profondo conoscitore di tutto lo scibile umano! Alla prossima riunione al Circolo degli Ufficiali parlerò di lei personalmente al capo di stato maggiore per farla entrare nell’esercito!.

Mentre mi dibattevo nel dubbio se il vecchio fosse svanito o mi stesse prendendo in giro gettai distrattamente lo sguardo sulla lunga fila di macchine ed ebbi un sussulto riconoscendo l’Alfa 33 di Ludo. I finestrini erano abbassati e lui era là che mi fissava come impietrito. Il generale ed io ci mettemmo diversi minuti a passare oltre, così Ludo ebbe tutto il tempo di squadrarci da capo a piedi e probabilmente di captare perfino qualcosa dei nostri discorsi.

Quando il generale ed io ci allontanammo mi voltai indietro e vidi che scuoteva la testa come parlando fra sé. Quella sera mi presentai puntuale al negozio e Ludo, mentre gli andavo incontro, mi fissava senza espressione. “Mi fai paura” mi disse in tono serio quando fui a tiro di voce. “Hai visto bene che non mentivo”.

“È proprio quello che mi spaventa. Sarebbe stato molto meglio se fossi andato per mussa. Invece tu sei veramente scemo, possibile mai che se c’è n’è uno nei paraggi finisce sempre per picchiarmi dentro?” “Perché sarei scemo, scusa?” “Ma perché non ci devi andare dal generale!”

“Mi paga”. “E quanto ti dà, sentiamo?” “30.000 Lire a seduta.” “Sì, la seduta! Ti dovrebbe denunciare per circonvenzione d’incapace”.

“Credo di non rubare niente, mi impegno, studio”. “E tu studia, che tanto qui c’è lo scemo che trova le serate e facciamo a metà lo stesso!”.

Mi pareva che ogni sua parola fosse detta con un secondo fine, sebbene non sapessi dire quale, visto che con me aveva ben poco da guadagnarci. Quel che non mi convinceva era il suo tono così sicuro di sé. Possibile che la povertà non lo spaventasse per niente? Se fingeva era un attore abilissimo, cosa che certo non mi rassicurava. Non era stato ancora sfrattato dal suo bell’appartamento che certo costava ben più di 600.000 Lire, era un fatto. Il negozio di sua moglie era veramente un debito? Forse aveva delle risorse segrete. Quali? In fondo sapevo ben poco di lui. Gli dissi che suonavo in chiesa alla domenica gratis in cambio dei corsi di chitarra in parrocchia e che proprio in virtù di quell’inaspettata manna avevo trovavo anche la bizzarra occupazione presso il generale; lui intanto si era accesa una sigaretta e mi ascoltava fumando, con una specie di serietà. Alla fine disse, sempre con la sua aria sardonica: “Stai a sentire, non è che il generale ha bisogno anche della scorta? Dai, lo portiamo a Cesino e gli facciamo cantare Generale dietro la collina ci sta la notte crucca e assassina, sai che spasso!”.

Gli promisi che gliene avrei parlato e mantenni la promessa, ma il generale non voleva la scorta, voleva l’autista per andare a rivedere tutti i luoghi a lui più cari di Genova. Per quelle uscite sua moglie mi corrispondeva 40.000 Lire per rimborsarmi la benzina. La prima mattinata fu interessante, il generale mi parlò di quando si sposò, dei suoi due figli, che ormai erano grandi, sposati e padri a loro volta, aveva quattro nipoti ed era per lui motivo di orgoglio. Mi parlò dei tempi in cui era colonnello alla Caserma D’Oria e il suo generale era persona degnissima e capace, ma aveva un solo problema: sua moglie doveva star sempre in ufficio con lui, altrimenti si sentiva perduto, forse a causa di un trauma occorsogli durante la guerra.

E doveva anche consigliarlo nel prendere le sue decisioni: “Ma allora la caserma la comandava sua moglie!” osservai incredulo, e il generale mi disse che in un certo senso era così, ma non era proprio così. Stavo pensando che aveva avuto ragione nel dire che ero un giovane fortunato nell’essere messo a parte di tutti quei ricordi, a pensarci era un’immensa ricchezza, ma già dal giorno dopo il generale apparve in difficoltà nel rivisitare i luoghi della sua giovinezza, cominciava a raccontare ma poi si interrompeva e rimaneva in silenzio a lungo. Spesso mutava repentinamente di umore e voleva che andassi da tutt’altra parte da dove aveva prima deciso, come se avesse fiutato un pericolo improvviso. In certi luoghi era difficile trovare parcheggio e giravo in tondo per parecchi minuti e lui si spazientiva e mi gridava: “Ma che fa, le grandi manovre?!”.

Una mattina eravamo appena partiti e lui mi ordinò di riportarlo immediatamente a casa, perché si sentiva stanco.

“Sospendiamo – mi disse sua moglie – siamo alla fine di giugno e come ogni anno andiamo in vacanza nella casa di campagna. Riprendiamo a settembre, magari.

Ma il generale morì qualche giorno prima del rientro e rimasi sgomento, non tanto per il mancato guadagno. Dunque si andava via così, da un momento all’altro, che fosse dopo ottantaquattro anni o dopo sessantacinque, come nel caso di mio padre, era lo stesso. All’improvviso, il meccanismo perfetto che ci teneva in vita si inceppava e tutta quella ricchezza di ricordi, sentimenti, desideri spariva nel nulla ed era tanto più sconvolgente perché finché si era in vita, pur sapendo che era così per tutti, non si riteneva possibile che sarebbe successo anche a noi.

Per Ludo ovviamente le cose non erano così, almeno all’apparenza: “Non ti crucciare troppo, Pierin, tu devi pensare a crescere tua figlia non nella povertà, al resto è meglio che non ci pensi, ché tanto non c’è soluzione. adesso l’ho trovato io un lavoretto alternativo, vieni in negozio domani, se ti vuoi guadagnare qualcosa, e ne parliamo…”.

PIERO TROFA (Musicista di serie C)