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Teatro Iva Chiesa, piace Il lutto si addice ad Elettra

Teatro Iva Chiesa, piace Il lutto si addice ad Elettra
Teatro Iva Chiesa, piace Il lutto si addice ad Elettra

Sabato 11 ottobre il Teatro Nazionale ha inaugurato la stagione di prosa al teatro Ivo Chiesa con il dramma “Il lutto si addice ad Elettra”, datato 1931, considerato il capolavoro dello scrittore  americano Eugene O’Neill, nella traduzione di Margherita Rubino e la regia di Davide Livermore.

L’attesa del pubblico che affollava il foyer era palpabile: pubblico ampiamente soddisfatto a giudicare dagli applausi finali e a scena aperta che hanno accompagnato gli attori.

E’ un dramma fortemente noir del quale sono protagonisti i membri di una famiglia “perbene” del XX secolo: lo spunto è tratto dall’Orestea di Eschilo, i personaggi sono gli stessi, anche se cambiano il nome, e le stesse sono le loro azioni, ma non è più  il Fato (o gli Dei) che li governano ma le loro  passioni ed ossessioni che  inclinano, in un crescendo che pare inesorabile, verso il delitto:  sembrano sfuggire alla giustizia umana ma non al senso della giustizia, che, alimentato dal senso di colpa e del rimorso,  resta in loro e che,  in una continua, quasi inconsapevole ed ugualmente inesorabile  autoanalisi, li porterà all’autodistruzione, al suicidio  o, nel caso di Elettra- Lavinia, alla rinuncia ad una desiderata vita affettiva. 

Le prove dello spettacolo

I sentimenti sono tutti negativi o non confessabili, a cominciare dalla relazione segreta della madre Christine con il cugino “illegittimo”, il capitano Brant,  che innesta gli eventi che seguono. Christine ama Brant e odia il marito che vuole uccidere ( e lo fa), poi, per proteggere se stessa, instilla nel figlio l’odio verso la sorella Lavinia, al corrente della relazione. Lavinia odia la madre e riesce a convincere il debole fratello Orin ad  uccidere il capitano Brant; successivamente, per proteggere il loro segreto e dopo il suicidio della madre, Lavinia instaura con lui un rapporto a tinte incestuose. 

L’unica salvezza in prospettiva per la giovane è il matrimonio con Peter, visto più come un’ancora di salvezza che come un vero affetto,  che lei implora ma che  alla fine rifiuterà, come tributo all’espiazione.  

Di grande potenza l’epilogo, con la protagonista che si cala un velo nero in testa  e che si chiude in una casa senza luce per “affogare nel lutto”, come recita la nota espressione di un contemporaneo di O’Neill, lo spagnolo Federico Garcia Lorca.

Felice l’impianto scenico lineare e moderno, poco affollato di mobili, che lascia spazio alle dinamiche fisiche e psichiche dei protagonisti. La tripartizione di O’Neill – il ritorno, l’agguato, l’incubo – è rispettata e così i suggestivi quadri  intervallati da un sipario completamente nero che spezza la pesantezza della durata (più di tre ore), lasciando nello spettatore il desiderio di vedere cosa succede dopo.

Un mazzo di fiori scuri sempre in scena, ora sui mobili, ora sul pavimento, ora in braccio alle interpreti, appare come simbolo silente delle tragedie, quasi come un settimo interprete.

Il messaggio del regista Livermore è quello che non può più esserci, nella società odierna,  un tribunale “esterno”, che tenda ad una giustizia assoluta: quello che avviene oggi è all’interno di un percorso personale  illuminato dal Sè e  tribunale di se stesso.

Un appunto? La lunghezza eccessiva dello spettacolo, più di tre ore compreso l’intervallo. Se mi si permette una battuta, credo che gli interpreti, un cast eccezionale, dopo l’ultima recita di domenica 26 ottobre, peseranno qualche chilo di meno… Comunque da vedere, assolutamente. ELISA PRATO

Teatro Nazionale, si apre con Il lutto si addice ad Elettra

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