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Ne Il giardino dei ciliegi la quieta disperazione di Cechov

Il Giardino dei Ciliegi

In corso fino a domenica 30 maggio al Teatro Ivo ChiesaIl giardino dei ciliegi” di Cechov nella versione di Alessandro Serra.

Ogni autore, anche  dilettante, in maniera più o meno intensa, più o meno palese, non può prescindere, mentre scrive, dal proprio vissuto: e quanto più questo traspare  dal testo, tanto più il pubblico ne resterà impressionato e coinvolto. Potenza dell’autenticità.

Anton Cechov, nato a Tangarov, Ucraina, nel 1860, laureato in medicina, di scarsa salute poiché tisico e sofferente di cuore – due problemi che influiscono pesantemente sulle capacità di agire e di decidere –  passò la prima giovinezza a scrivere novelle che raccontavano delle azioni e della psiche di piccoli uomini:  impronta che rimase nei suoi scritti anche quando cominciò a scrivere per il teatro. Tanto che le sue opere,  poco “teatrali” secondo il gusto dell’epoca, gli valsero da subito qualche fiasco.

“Il giardino dei ciliegi”, del 1904, è la sua ultima opera, in cui sono presenti elementi spiccatamente autobiografici (i debiti della madre, il suo affidarsi a persone insincere, la vendita di un giardino di famiglia – cari alberi di ciliegi, appunto – la sua attenzione verso l’ecologia e i gradini sociali), prima che la tisi lo uccidesse nello stesso anno.

Diversamente dai predecessori, il teatro di Cechov non propone eroi o eroine sempre in lotta verso sconfitte o vittorie: le sue creature si presentano fin da subito già sconfitte, prive di volontà e di decisionalità: una sorta di paralisi emotiva, di lasciarsi vivere che accentua la sterilità di un’esistenza che vorrebbe sbocciare ma è incapace di guardare non dico lontano, ma neppure vicino. I personaggi hanno vissuto  senza uno scopo, trascinati dagli eventi e dall’altrui volontà:  e così continuano, attendendo passivamente  che qualcosa succeda e che risolva. Ma il deus ex machina guarda da un’altra  parte. Gli eroi  vanno, spesso consapevolmente, verso la morte materiale, i personaggi di Cechov vanno, altrettanto consapevolmente, verso la condanna alla continuazione di  una sottovita   inconsistente e disperata.

Il dramma del caro giardino che sta per essere alienato e distrutto si svolge in  una casa dove più persone, imparentate o meno, si riuniscono. La padrona, una ancor giovane madre di famiglia,è ritornata alla sua vecchia casa: la donna nasconde, sotto un’apparenza gaia ed evanescente, alcune tragiche realtà,  la vedovanza, la morte per annegamento di un figlio di cinque anni, il dissesto economico ad opera di un amante. Il giardino dei ciliegi, capace di fiorire  a tre gradi sottozero, custode di affetti e memorie, sta per essere venduto all’incanto per saldare i debiti. Un amico suggerisce alla donna come mantenerlo, anche a prezzo dell’abbattimento  degli alberi, ma lei, speranzosa nell’aiuto di una ricca zia, che non verrà, non decide: non sa decidere, non ha mai deciso.

Una musichetta, un’ ultima colazione sembra consolarla ma il suo lungo, inarrestabile pianto prima della partenza, la sua vana preghiera  al compratore di non abbattere le piante, marchiano l’animo dello spettatore con la commozione puntualmente generata dalla visione di simboli e valori in disfacimento.

L’allestimento attuale della  scena sembra anticipare la tristezza dello svolgimento: la casa è uno scatolone di pareti nude e ruvide di colore beige. In essa si svolgono  conversazioni tra parenti, ora lievi, ora pungenti, sempre prevedibili ( mobili antichi, matrimoni non conclusi ), in un’atmosfera di falsa gaiezza, sottolineata da danze che vorrebbero essere allegre e svianti e spezzare l’attesa   della prossima perdita, ormai inevitabile, di quell’ampio giardino di ciliegi in fiore, testimone di tempi felici che non torneranno. Pensiero fisso, che fa costantemente capolino, di tutta la non allegra brigata.

Emblematico il personaggio dell’antico servitore, sulla cui lunga vita qualcuno, persino la padrona,  si permette di scherzare crudelmente, che etichetta  e chiude tutto lo svolgimento: “la vita è andata via come se non avessi mai vissuto”.

Una rappresentazione che forse andrebbe un poco snellita, comunque nobilitata da una recitazione calzante ed eccellente da parte di tutta la compagnia: l’interminabile singhiozzare di quella madre fallita ed impoverita resterà a lungo  nella memoria dello spettatore. Elisa Prato